Società

Halloween, non bussate alla mia porta

Da ragazza, durante la lezione d’inglese alle superiori, trovavo sempre intrigante ascoltare le storie sul folclore della vecchia Inghilterra (l’inglese insegnato era british, of course). Gli inglesi con l’ombrello e la bombetta, il pub a ogni angolo, il tè alle cinque, lo Speaker’s Corner in Hyde Park e, naturalmente, la festa di Halloween.

Anni dopo mi trovai un 31 ottobre sulle strade buie e isolate, a tarda notte dopo il lavoro, nella sporca Dublino; un imponente blackout aveva gettato un’ombra nera su tutta la città. Solo allora, il ricordo di quei racconti ascoltati in passato, di streghe e fantasmi, si riaffacciò nella mia mente. Il vento umido e appiccicoso ululava in quella fredda notte di tenebra…

In verità questo è uno dei pochissimi ricordi legati alla festa di Halloween. Nei primi anni Ottanta, quando ero bambina, non esisteva e solo nell’ultimo ventennio la psicosi da “dolcetto o scherzetto” ha cominciato a invadere le nostre città. Ai giorni nostri, l’indottrinamento alla festività celtica comincia già all’asilo nido.

Halloween è rientrato nella mia vita dalla porta di servizio, e ogni anno – nonostante potremmo vantare un pedigree anglosassone per quattro quinti della famiglia – mi ritrovo intrappolata nella stessa domanda: “Porti fuori i bambini per Halloween?”

Quando espongo le varie motivazioni, che variano da “no, non abbiamo nessuno travestimento in casa” a “no, odio profondamente Halloween, quasi quanto l’idea che possa vincere Trump” a “siamo calvinisti, andremo solo in chiesa”, i vari interlocutori mostrano un faccino di pura contrizione. Non per me, certo, ma per i miei figli privati da genitori snaturati del piacere di fresca importazione. Farli festeggiare “semplicemente” il Carnevale è roba da spilorci: sopportare ore di grida all’interno di una palestra di gonfiabili, in mezzo a Elsa e Spiderman versione mignon e trovarsi coriandoli fin sotto il perizoma, non raggiunge l’apoteosi di decine di campanelli suonati per strada.

Ok, giù le carte. Ho un problema con l’America, pur avendone sposata una versione decisamente diluita. Non è l’America in sé, piuttosto quello che l’America (che di Halloween ne ha fatto la seconda festività più commercializzata del paese) riversa, e che il resto del mondo importa pappandoselo con un signorsì. Direttamente dai film, cartoni, serie televisive, incameriamo il messaggio, convertiti di non poterne più fare a meno.

Ci si abitua a tutto, ma proprio a tutto, in nome del commercio. Il lavaggio del cervello finisce per convincerci che sì, il caffè di Starbucks non è in fondo così male, che le Crocs sono davvero scarpe e che l’hamburger di McDonald’s è fatto con vera carne macinata. Siamo ingordi di importare qualsiasi cosa perché quello che abbiamo ha perso richiamo: tradizione, per molti, vuol dire desueto. Quel che sta fuori è sempre meglio, ecco perché i giovani italiani aspirano a vivere, come prima scelta, negli Stati Uniti.

Il rischio è di cedere alla fascinazione del nulla, importare il vuoto da una nazione che come civiltà, spirito e società ha poco da offrire. L’America di Steinbeck e Toni Morrison, di Bruce Springsteen e di Nina Simone, di Muhammad Ali e Martin Luther King, di Marlon Brando e Betty Friedan, sempre più esigua, è quella che deve resistere, per ispirarci, per elevarci. Tutto il resto sono porcherie e junk-food, e crescono benissimo anche qua.

Comprare è (anche) un atto politico. Non vorrei trovarmi, fra vent’anni, durante il cenone di Natale, davanti a un tacchino di dieci chili, magari lavato con la candeggina.