Ambiente & Veleni

Altro che ponte sullo stretto, le risorse vadano al trasporto pubblico del Sud

Che cos’è una stazione senza la gente che la popola a singhiozzo, per il tempo che serve ad aspettare l’arrivo del treno e partire? Senza il fischietto che annuncia la chiusura delle porte e la voce che annuncia i ritardi dagli altoparlanti? Un deserto surreale. Con le sedie vuote e l’ufficio serrato del capostazione. Proprio come nella stazione di Niscemi, in provincia di Caltanissetta, dove il treno non passa più e il tempo pare essersi fermato, dall’8 maggio 2011. A causa del crollo di un ponte ferroviario sulla linea non elettrificata, che collegava Catania-Caltagirone-Gela. Quel binario unico, dal sapore così ottocentesco, è rimasto, da allora, in vana attesa di “materiale rotabile”. Nessun ripristino, dopo cinque anni. Le foto gentilmente donate da Adelaide Conti mostrano la stazione abbandonata e il binario sospeso (letteralmente) dove un tempo sorgeva un ponte ferroviario.

Non è un caso, d’altronde, se il Rapporto dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez) 2015, nella frase d’esordio del capitolo sulle infrastrutture, così recita: “Dagli anni Novanta la programmazione finanziaria si è caratterizzata per una sistematica riduzione delle risorse destinate all’infrastrutturazione del Mezzogiorno; gli effetti di questa tendenza appaiono evidenti dall’evoluzione delle dotazioni infrastrutturali, che in quest’area hanno registrato solo modesti miglioramenti, rispetto ad avanzamenti più significativi nel Centro-Nord”.

Ecco perché, come un fulmine a ciel sereno, sono giunte le dichiarazioni del premier e del ministro delle infrastrutture inerenti l’intenzione di rimetter mano al progetto del ponte sullo stretto di Messina: l’unico ponte che riesce a dividere l’opinione pubblica anziché unirla, come logica e dizionario vorrebbero.

Questo ponte sarebbe davvero la priorità per dare lavoro e risolvere i problemi della gente del Sud? È il caso di capire quanto tempo impieghi un siciliano per arrivarci, allo Stretto.

Per scoprirlo basta visitare trenitalia.it. Per un lunedi mattina (h 6.00 – 9.00) troviamo collegamenti (regionale e intercity) che impiegano tre ore per andare da Palermo Centrale a Messina. Più o meno il tempo che occorre per arrivare, con l’alta velocità, da Roma a Milano. Nella stessa fascia oraria, tra Roma e Milano trovate ben 9 treni Frecciarossa. Controllate.

Il rapporto Pendolaria 2015 segnala la chiusura del tratto Caltagirone-Gela, nel 2011 (45 km) e, nella tabella riportata poche pagine prima, segnala che, se in Calabria si è assistito a un taglio di servizi ferroviari del 26.4%, con un aumento tariffario del 20%, nel quinquennio 2010-2015, nella regione siciliana il taglio si è attestato al 12.1% con un aumento tariffe del 7.7%, nel medesimo periodo. L’età media dei convogli siciliani è di 22.5 anni. Fa peggio la Puglia, con 22.9. Questo brano, tratto dal Rapporto di Legambiente, la dice lunga: “Si assiste poi a una condizione tragica del tragitto tra Ragusa e Palermo dove ormai solo 2 collegamenti al giorno effettuano il percorso (di cui almeno una tratta in autobus) ed uno obbliga a 2 cambi impiegando oltre 6 ore e 11 minuti per arrivare a destinazione, mentre l’altro prevede addirittura 3 cambi”. E ancora: “Servono investimenti attenti a migliorare l’offerta tra i centri capoluogo (treni nuovi e più veloci) nell’attesa che si realizzino gli investimenti capaci di ridurre il gap con il resto d’Italia che soffrono Regioni come la Sicilia (dove l’89% dei 1.430 km della rete ferroviaria è a binario unico e quasi la metà della stessa rete non è elettrificata)”. Treni lenti, stazioni soppresse, aumenti delle tariffe. E quando i treni veloci ci sono, la rete non permette. Andare in Frecciargento in Puglia, ad esempio, (al massimo a 150 km/h) è come spostarsi in Porsche sull’autostrada, trainati dal carroattrezzi.

L’infrastrutturazione efficiente è premessa, non conseguenza. Il mito del sottoutilizzo del trasporto pubblico al sud è stato smentito del tutto proprio in questi anni da diversi esempi virtuosi: il successo del collegamento diretto Palermo-Catania dopo la chiusura dell’autostrada, la linea che collega il centro di Bari con l’aeroporto, le metropolitane di Napoli.

Le parole profetiche del giornalista de Il Fatto Quotidiano Antonello Caporale nel febbraio 2016: “Quando accadrà, perché purtroppo accadrà che qualcuno ritiri fuori il Ponte sullo Stretto, la grande opera che dovrebbe proiettare la Sicilia verso l’Europa, teniamo a mente questa lista. È un elenco – nemmeno completo – dei piloni ardenti e cadenti, delle frane avanzanti, dei giunti allentati, delle voragini che hanno inghiottito le arterie principali dell’isola. Le principali, perché tenere il conto della viabilità generale significherebbe condannare il lettore a interruzioni senza fine, pagine intere di calamità avvenute e consegnate al ricordo”.

Caporale fa riferimento alla lunga lista di strade crollate, franate, interrotte: la strada panoramica di Enna, il viadotto Verdura sulla statale Agrigento-Sciacca, crollato nel 2013, il crollo del viadotto sulla statale 626 in provincia di Agrigento, i pilastri del viadotto Cinque Archi a cavallo tra le province di Enna e Catania. In molti casi tutto resta fermo per anni, in altri si decide di restringere la carreggiata, quando si può.

Non so a voi, ma a me tutto ciò fa ricordare la storiella della “locomotiva d’Italia” che avrebbe trascinato il sud allo sviluppo. Qui sono ancora tutti sui binari. Ad aspettarla, la locomotiva.

(Ringrazio Giambattista Pisasale per le preziose discussioni sulle infrastrutture siciliane e non solo).