Tre spettacoli, tre blocchi come lo fu lo scorso anno in Emilia sul tema “Ligabue”. Paradossalmente il pittore matto di Gualtieri – argomenti trasversali la follia, l’abbandono, la solitudine – aveva emanato più empatia e vicinanza. Le storie, tragiche e drammatiche, di migrazione, pur nel loro dissesto sentimentale e umano, alla fine si assomigliano tutte e, complice l’informazione, ormai sono il tappeto sonoro e visivo dei nostri notiziari. Come dire che non fanno più scalpore, non che ci lascino indifferenti, ma ormai abbiamo assorbito i fatti che si ripetono puntualmente senza sosta, senza che alcuno ponga un limite, un freno, uno stop o una soluzione a questo avvenimento su scala globale che qualcuno chiama “invasione”.
Quaranta tra attori e musicisti: su tutti Ippolito Chiarello, kapò-schiavista o rom uscito da “The snatch” di Guy Ritchie, vero alter ego di Perrotta (perché si è autoescluso?), e Paola Roscioli, monologhista nel recital finale. Se il progetto “Bassa Continua” (Premio Ubu ’15) era costato 250.000 euro, questo è stato prodotto con 180.000, dietro ci sono Regione Puglia e Teatro Pubblico Pugliese.
Molti i luoghi comuni (che però derivano sempre dalla realtà conclamata dei fatti): spaccio, l’elemosina, il rubare, la prostituzione, veli, moschee e kamikaze, e altre amenità, descritti in tono scanzonato, sembrano, visti con l’ottica dissacratoria dell’autore, una sorta di giustificazione, antidoto alla loro povertà che insiste sul nostro benessere. Anche l’umanizzazione dello scafista, qui vero e proprio traghettatore di anime-Caronte, ce lo fa apparire come un povero diavolo, che ci fa anche tenerezza e simpatia, che deve sbarcare, appunto, il lunario consegnandoci pacchi giornalieri di zombie. Ironia e poi stilettata drammatica.
Se nella prima parte il sarcasmo trasmuta in cronaca pesante e ancora sanguinante con la vicenda delle violenze di Don Cesare all’interno di un Cpt (è lì sulla costa il fabbricato nel completo degrado, sopra la scritta “A noi è patria il mondo come ai pesci il mare”) nel secondo passaggio entriamo nel labirinto-bosco-via crucis dove vengono messe in mostra, sempre con leggerezza, le caratteristiche peculiari di chi da noi arriva dal mare: lavoratori in nero, stupratori, violenti d’ogni risma, che si trasformano nel momento dei bozzoli appesi agli alberi, i richiedenti asilo sospesi ai pini (toccante) prima di defluire verso la riva dove corpi galleggianti affiorano e le voci dei morti risuonano (struggente).
La terza parte, “Lireta”, storia autobiografica di una ragazza albanese, è, e sembra un ossimoro perché la più tangibile, la meno interessante in questo contesto forse proprio perché progetto da sala, lirico e romantico, mutando ben presto in una soap di Tirana, tra botte, schiaffi, figli, matrimoni combinati, trafficanti, lettera aperta, odi et amo, all’Albania. “Ci vuole coraggio a trascinare le nostre suole da una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole” (Ivano Fossati, “Pane e coraggio”).
(Le fotografie sono di Luigi Burroni)