Società

Sud, non partecipate. Distraetevi

Con qualcuno bisogna prendersela, per forza. Se i treni a sud del Garigliano sono lenti e vecchi. E sistematicamente in ritardo. Se per unire Lecce e Foggia impiegano quasi lo stesso tempo (due ore e ventitrè minuti con Frecciargento) che occorre alla stessa S.p.A. Per scarrozzare i passeggeri da Roma a Milano (due ore e cinquantacinque su Frecciarossa), su vetture migliori e confortevoli, qualcuno avrà pur sbagliato qualcosa. Forse, noialtri. Se ne parli sei vittimista (o populista) così come venti anni fa vigeva la schizofrenia del dualismo fascista/comunista. Un atteggiamento reazionario che tradisce qualche nervosismo di fondo. Come quei tabù paesani, del retropensiero in bianco e nero. Di contro, qui hanno tutti le tasche piene di etichette. Le etichette aiutano a costruirsi un comodo ordine nel piccolo caos quotidiano delle incertezze. Aiutano a star bene con se stessi. Non è mai cambiato nulla. Dal dagherrotipo al selfie, i biglietti restano preferibilmente di sola andata. Nel frattempo, chi potrebbe farlo, decide di non cambiare, per pararsi le natiche dalle insidie della burocrazia velenosa. Si preferisce la paralisi dell’inazione corale.

Non c’è digitale che tenga per chi preferisce il cavillo al cavallo. Negli uffici alti e stretti, tinteggiati di giallo paglierino, si rovesciano, al massimo, le vocali, anziché le scrivanie. Che si sieda sulla poltrona di pelle o sulle sedie dure di formica e alluminio, la musica è sempre la stessa. Perché tutti bevono caffè negli stessi bar, sapidi di rancore e lamentela. “Con 500 euro di pensione non si vive”. “Le medicine costano”. “L’aria ormai è inquinata”. “Sono tutti uguali, inutile votare”. Frasi interclassiste di un unico discorso malaticcio e infertile, ondeggianti sul mare magnum della rassegnazione. Oggi, poi, l’inazione passa nel livore di frotte di troll impotenti e bavosi, destinati a sfogare la rabbia e l’insoddisfazione nel sottofondo passivo della rete.

Il sud offre uno scenario vivace e triste, al tempo stesso. È fiore e deserto. Da un lato, prezzolati cantori del potere con le natiche incallite sulle poltrone e, dall’altro, folle ondeggianti nell’agone di una modernità derelitta, fatta di anticorodal e sottomarche. Il discorso sul sud è diventato un esercizio retorico e sterile, ingoiato dal macchiettismo cialtrone dei politicanti che si alternano nel carosello della gestione minuta. A cui conviene, senz’altro, contenere le spinte propulsive e la consapevolezza dei giovani, auspici gli inviti perpetui alla moderazione di chi vive nell’agio e percepisce il fiato dell’abisso, oltre l’orizzonte comodo dello status quo. Sembrano dire: fermatevi al bar, anche voi, esercitatevi nel rancore mefitico e improduttivo. Non partecipate. Distraetevi, mentre i tarli divorano anche le gambe del vostro tavolo. Fatevi una bella dormita, poi prendete un biglietto e andate via. Cambiate aria. Proprio come i vostri nonni e bisnonni, mutatis mutandis.

Nonostante tutto, quante energie sommerse sono pronte a germogliare. Ad attecchire. Basta offrire la possibilità e creare le minime condizioni favorevoli. Anziché intralci. Hic manebimus optime, dicono alcuni. Altri ritornano, appena possibile. Perché il legame viscerale col proprio territorio è più forte delle lusinghe della comodità consumista. La religione del produrre/consumare non riesce a spiegare il ritorno delle migliaia di giovani che decidono di scommettere tutto sul proprio territorio d’origine. Attivi e consapevoli. A tutti i cultori dei bar della rabbia vorrei dire, prima di sottrarre entusiasmo agli sfortunati avventori: prendiamocela con la lista infinita delle nostre omissioni, prima di sconsigliare.

Guardiamo dentro casa nostra. Abbiamo la differenziata nei nostri comuni? Perché no? Quanti alberi sono stati piantati da questa amministrazione? Come viene usata l’energia nel nostro quartiere? Quanti bambini sono nati? Quanti giovani sono andati via? Quanti progetti europei sono stati scritti? Quanti vinti? Vi siete accorti del bilinguismo amorale dei vostri rappresentanti in Parlamento? Cosa dicono in paese? Come votano a Roma? Perché? Cosa abbiamo fatto, in prima persona, perché almeno uno solo di questi aspetti migliorasse?