Cultura

David Foster Wallace “prigioniero sull’isola di se stesso”: a otto anni dal suicidio, quanto vorremmo avere notizie di lui

Dal 2008, da quando l’autore di Infinite Jest si tolse la vita sul patio della sua casa di Claremont in California, torna ogni anno alla mente il ricordo del lutto inspiegabile. Non bastano biografie, film e romanzi postumi: il pensiero finisce sempre in quel crepaccio psicologico verticale e profondo, paradossale speculare testacoda, da cui germogliavano, come per i più grandi, creazione geniale e dolore interiore

“E’ stato prigioniero, per tutta la vita, sull’isola di se stesso”. Quando Jonathan Franzen nell’aprile 2011 pubblicò sul New Yorker un articolo dedicato all’amico scomparso David Foster Wallace – Franzen che nel 2007 cancellò le sue vacanze estive per stare assieme all’amico depresso – si comprese quanto “infinito”, insuperabile ed irrisolvibile, potesse essere il crepaccio psicologico in cui viveva l’autore di Infinite Jest. Luogo in cui germogliava di continuo, in un paradossale speculare testacoda, sia la riflessione sui dettagli che crescevano a grappolo nel suo sguardo sulla contemporaneità, e che finiranno per comporre l’irripetibile sinfonia di una scrittura compulsiva, sia il dolore interiore che non si scaccia nemmeno con vagonate di psicofarmaci.

Ad otto anni dal suo suicidio (12 settembre 2008), sempre a ridosso di quell’altro crash dell’11 settembre 2001 (“l’evento perfetto che unisce in sé tutti gli eventi che non sono mai accaduti”, scrisse Baudrillard) ricordato solennemente a cadenza inesorabile nell’intero sistema mondo 24 ore prima della morte di David, ecco che quell’immagine gentile e dolce, glaciale e distante, dell’omone con la bandana attorno alla fronte, di quel cristone alto come un palo e robusto come una quercia, spezzato all’improvviso da una corda sospesa su un patio che non sembra all’improvviso più reggere il peso del mondo, diventa come una ricorrenza istituzionale di un lutto inspiegabile.

Suicida d’estate come Pavese ed Hemingway, imbrigliato dentro una gabbia dell’esistente che nelle 1400 pagine di Infinite Jest non trova pace ed esaustività, fine ed inizio, David Foster Wallace continua ad essere nel tempo della ricorrenza di quel gesto estremo, l’anima candida a cui non si può rimproverare nulla, se non l’immenso fardello del dolore e della pena. Abbiamo letto tutto di lui, ma ancora qualcosa sembra mancare. Un tassello di realtà, un particolare della fatica di vivere, una lettera ritrovata, una mail mai spedita e finita nelle bozze, una traccia infinitesimale di una vita tenuta comunque nascosta, limitata a “speech” accademici e rari interventi in pubblico.

I tentativi, egregi, di raccontare chi sapeva raccontare meglio di chiunque altro i nodi irrisolti, le ambiguità e le ambizioni della società contemporanea, non sono mancati. C’è stata la lunga e precisa biografia degli anni giovanili Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi (Einaudi) scritta nel 2013 da D.T.Max, grosso tomo informativo che sazia la sete amicale pescando qua e là aneddotica (il David allergico ai cani ma che corre in giardino a vivere la sua “spiccata capacità empatica” con Roger, il suo beagle, pointer, terrier, ed esempio).

C’è stato il recentissimo documentario The end of the tour, diretto da James Ponsoldt, gradevole tranche de vie dell’omone di Ithaca, viaggio di cinque giorni, compiuto nell’inverno 1996 dal giornalista di Rolling Stone, David Lipsky (Jesse Eisenberg) con un discreto Jason Segel (Wallace a 34 anni) appena lanciato con la pubblicazione di Infinite Jest. Solo che poi The End of The Tour diventa un buddy-movie, interessante per carità, ma più filone “nascita di un’amicizia” tra i protagonisti che sguardo scrutatore ed esplicativo veritiero anche solo di una briciola del dolore interiore del nostro.

Infine una frase che va tenuta stretta, da Il Re Pallido, romanzo postumo, che fa così: “La nostra piccolezza, la nostra insignificanza e natura mortale, mia e vostra, la cosa a cui per tutto il tempo cerchiamo di non pensare direttamente, che siamo minuscoli e alla mercè di grandi forze e che il tempo passa incessantemente, e che ogni giorno abbiamo perso un altro giorno che non tornerà più e la nostra infanzia è finita e con lei l’adolescenza e il vigore della gioventù e presto l’età adulta, che tutto quello che vediamo intorno a noi non fa che decadere ed andarsene, tutto se ne va e anche noi, anch’io, da come sono sfrecciati via questi quarantadue anni tra non molto me ne andrò anch’io, chi mai avrebbe pensato che esistesse un modo più veritiero di dire “morire”, “andarsene”, il solo suono mi fa sentire come mi sento al crepuscolo di una domenica d’inverno”.