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Grecia, un anno dopo che tipo di premier ha? (E che futuro per l’Ue)?

Non è ancora chiaro se, a un anno dalla vittoria elettorale seguita all’addio di Yanis Varoufakis, il premier greco Alexis Tsipras abbia imboccato o meno la strada del completo risanamento e, quindi, anche della sua stessa sopravvivenza politica. Al momento, due sono gli elementi su cui ragionare a bocce ferme: la situazione generale (del Paese e dei greci), e gli obiettivi di carattere politico e finanziario.

La Grecia di tutti i giorni, quella dei cafenìa, delle agorà dove si vende poco e si svende molto, degli studi professionali vuoti dove si fa un eco cardiogramma anche a 20 euro, beh quella Grecia è a un passo dal collasso. Più volte in questi anni di crisi ellenica si è sottolineato il fatto che fosse a un millimetro dal fallimento. Ma i prestiti decisi dalla troika hanno solo ritardato quell’evidenza, dal momento che la Grecia è legata ai suoi debitori sino al 2052, e fino ad allora non ha la concreta possibilità di rimettere in piedi consumi e ciclo commerciale per via di una serie di fattori. Come tasse esose e assurde (si veda quella sulle auto a gpl e metano), di privatizzazioni condotte ad appena il 20% del potenziale totale greco, per via di un rinnovamento che si è tradotto solo il slogan e, nei fatti, in vessazione della classe media e bassa dal momento che l’Iva al 23% su pane e latte è un cazzotto in faccia a chi soffre e non certo agli oligarchi. Tutto ciò senza voler tacere sul fatto che la Grecia fosse piena zeppa di evasori e che la spesa pubblica abbia ormai toccato cifre imbarazzanti.

Il settore turistico, fiore all’occhiello per via del record del 2015 (20 milioni di presenze) , invece nell’estate che volge al termine sta scontando le criticità legate al caso dei migranti, con le isole dell’Egeo orientale che accusano un vistoso calo: Lesvos, Chios e Samos su tutte. Unica nota positiva la riforma delle frequenze televisive, che dovrebbe (ma il condizionale è davvero d’obbligo) aprire un mercato che per 40 anni è stato chiuso e imbullonato in mano a quattro famiglie senza un centesimo di incasso per lo Stato.

Ma ad Atene il prossimo 9 settembre Tsipras ha invitato i suoi colleghi mediterranei a formare un “fronte meridionale” sui due grandi temi ancora irrisolti nel continente: i rifugiati e la crisi finanziaria. Secondariamente il meeting cela anche una motivazione di carattere personale: Tsipras, che fino al gennaio 2015 nei comizi pre urne sbraitava contro la troika e Berlino salvo poi diventarne fedele alleato, ha bisogno di dimostrare di avere ancora una certa influenza internazionale. Lecito chiedersi se ne abbia mai avuta, visto il cambio repentino di policies legate all’applicazione stessa del memorandum.

Oggi 9 greci su 10 si dicono ampiamente insoddisfatti dell’operato del governo e non perché avrebbero preferito tornare alla dracma, ma semplicemente perché accanto ad un’imprescindibile opera di riforme e modernizzazione di un paese ancora corrotto, iperburocratizzato e sordo al cambiamento (come invece sta facendo, e bene, la vicina Albania) sarebbe stato opportuno non finire di “uccidere” indigenti e classe media, ma favorire una corretta riscossione delle tasse per stimolare un nuovo corso, aprire davvero alla concorrenza per migliorare i servizi, non per disfarsi di utilities come gli aeroporti regionali delle isole dati in concessione alla tedesca Fraport.

Ecco che le voci di elezioni anticipate tornano a fare capolino su Atene dopo la (sacra) pausa estiva anche perché i conservatori, guidati dal brillante Kyriakos Mitsotakis, sono dati a 7 punti in avanti. Ma il dato su cui riflettere non è legato a chi vincerà o meno eventuali gare, vicine o lontane, quanto a come faranno i vincitori a rivoltare la Grecia come un calzino. Vertenze drammatiche, come il colosso Marinopoulos o l’emittente televisiva Mega, si abbattono solo sulle spalle dei lavoratori, senza che ai piani alti qualcuno batta ciglio. E allora tentando di guardare ai prossimi mesi senza tessere di partito o slabbrature ideologiche, sarebbe bene che governo e opposizione firmassero davvero un piano B per l’Ellade. Senza slogan vuoti o titoli buoni per un paio di prime pagine.

Il memorandum, che sta proseguendo con tagli verticali senza riforme vere come fatto ad esempio da Mariano Rajoy in Spagna (ha aumentato le tasse per tagliare il costo del lavoro, non per mettere una patrimoniale), va ricalibrato. Ma per discutere seriamente e nel merito con Bruxelles e Berlino servono prima uomini. Poi politici.

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