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A Chicago, dove il razzismo è di sistema

Un anno fa ho passato diversi giorni a Chicago, in un altro momento di violenze e omicidi di ragazzi neri, spesso sulla base di accuse infondate, da parte della polizia. Una sera ho avuto l’opportunità di accompagnare, in un turno di pattuglia, due agenti in giro per la città. Dopo l’ennesima violenza, la morte di un 18enne afroamericano di nome Paul O’Neal, la polizia ha deciso di diffondere il video di quello che è successo. Un ragazzo disarmato colpito alle spalle (nel video si sentono gli spari, anche se non si vede il momento dell’uccisione). 

Come può succedere? Che genere di società accetta che i titolari del monopolio legittimo della forza uccidano i cittadini che invece dovrebbero “servire e proteggere?”. Ho recuperato quegli appunti che possono aiutare a farsi un’idea. Eccoli.

Almeno arriva la biblioteca presidenziale. Barack Obama ha deciso: il centro che raccoglierà i documenti della sua amministrazione, monumento vitale ai suoi otto anni alla Casa Bianca, sarà nella città in cui ha costruito la sua carriera politica, Chicago. Ma l’indotto di congressi, turisti ed edilizia collegato alla biblioteca è l’unico risultato per cui gli afroamericani di Chicago ritengono di poter ringraziare Obama. Non osano dirlo esplicitamente, forse perché non lo ammettono neppure con se stessi, ma si percepisce l’impressione diffusa che aver avuto un presidente nero (“non è proprio afroamericano”, specificano tanti alludendo alla mamma bianca) ha danneggiato la battaglia secolare per l’eguaglianza più di quanto l’abbia aiutata. Obama ha dimostrato che un nero può andare ad Harvard e diventare presidente, che si può desiderare di più?

Per capire quanto profonde siano le fratture di razza in un’America che ribolle ogni volta (spesso) che un poliziotto bianco spara a un presunto criminale nero uccidendolo, bisogna andare nella città dove Obama ha costruito la sua carriera, partendo da community organizer, cioè un attivista nel vasto settore no profit dell’assistenza, fino al Senato e poi alla Casa Bianca. Cioè Chicago, anzi ChIraq, espressione che è diventata il titolo di un film di Spike Lee, facendo infuriare i politici locali. ChIraq, perché a Chicago si muore più che in Iraq. Il 4 luglio 2015, festa dell’indipendenza, in un giorno 82 persone sono state colpite da un’arma da fuoco, 14 uccise. Il giorno di Pasqua 45 cittadini di Chicago hanno ricevuto in proiettile. Ci sono zone della città dove non si può camminare sul marciapiede, quartieri abitati solo da neri dove i bianchi possono salvarsi ma chi ha la pelle scura è quasi sicuro di trovarsi in uno scontro tra gang. E poi c’è Downtown, il centro, con la torre marchiata da Donald Trump con il suo nome a lettere cubitali che è il più recente dei grattacieli che incombono sul fiume. Downtown è un mondo dove quasi tutti gli afroamericani che incontri ti aprono la porta in hotel o ti servono il pranzo. Perché Downtown è la città ricca, dunque bianca.

Al quinto piano del municipio, dove ci sono gli uffici dell’amministrazione cittadina, il sindaco Rahm Emanuel incontra i visitatori internazionali per spiegare che Chicago è perfino meglio di New York: “Se volessimo, potremmo entrare nel G20, la nostra città è la ventiduesima economia al mondo”. Emanuel ostenta la sicurezza che gli deriva da essere stato appena rieletto e, soprattutto, dal suo lavoro precedente: capo dello staff di Barack Obama alla Casa Bianca. A Washington lo chiamavano Rambo, a Chicago semplicemente “Rahm”. Nessuno lo ama, ma tutti gli riconoscono un impegno commisurato alla sua ambizione. “Questo è il miglior lavoro che ho mai fatto, se devi romperti il cervello sulla politica meglio farlo al livello in cui puoi cambiare la vita della gente”, spiega mentre salta inquieto da una parte all’altra della stanza, tradendo la sua frenesia e i suoi trascorsi di danza classica che fanno sorridere gli elettori. Senza però che nessuno osi ricordarglieli. Rahm parla, parla, delle università di Chicago, dello sport di Chicago, dell’aeroporto di Chicago che è un hub strategico verso l’Asia, delle imprese di Chicago. Il sindaco precedente, Richard M. Daley, terrorizzava imprenditori e finanzieri: ogni investimento a Chicago doveva avere il placet del sindaco, monarca locale più che amministratore. Rahm Emanuel ha rassicurato il mondo del business, ha fatto molte promesse e in cambio ha avuto oltre 30 milioni per la campagna elettorale e perfino l’endorsement del Chicago Tribune, il quotidiano conservatore della città che nel 2008 ha fatto la prima eccezione alla propria fede repubblicana per sostenere Obama.

Emanuel non parla mai di ChIraq, delle tensioni razziali, di quello che c’è fuori da Downtown. Ma la frustrazione è tanta che il sindaco è stato costretto ad andare al ballottaggio. Un’umiliazione per un incumbent, cioè il titolare della carica. A sostenerlo, nel primo turno a febbraio, è arrivato anche Obama. Un intervento decisivo. Perché la vasta comunità afroamericana di Chicago era tentata dallo sfidante: Jesus “Chui” Garcia, un messicano negli Usa da 50 anni che è stato tra i primi latinos a entrare nel consiglio comunale negli anni Ottanta, durante l’amministrazione del sindaco Harold Washington, il primo (e ultimo) nero ad aver guidato la città, oggi venerato al punto che il museo Du Sable dedicato alle radici afroamericane di Chicago ne ospita una specie di versione androide che parla e muove perfino le ciglia. “Mi sono candidato e sono sopravvissuto, una grande esperienza”, sorride “Chui” Garcia sotto i baffi, finalmente si può togliere la cravatta che doveva usare da candidato e tornare al look del attivista sociale che gli è proprio da mezzo secolo. Chui era la terza scelta di quella parte della città che cercava un avversario a Emanuel: ha fatto campagna elettorale solo per pochi mesi, ha raccolto meno di cinque milioni, una frazione di “Rahm” e ha perso. Anche perché i neri non lo hanno appoggiato, ma ha costretto il sindaco al ballottaggio dove ha preso il 44 per cento, molto più di quanto poteva sperare. L’altra città, quella di ChIraq e senza grattacieli, ha trovato il suo campione. “Chui” forse un giorno correrà ancora, ma ha preoccupazioni più urgenti: in campagna elettorale proponeva di assumere 1000 poliziotti in più, perché Chicago può essere la prossima Baltimora, basta che un poliziotto uccida (ancora) un ragazzo nero e la terza città degli Stati Uniti può incendiarsi. Come Baltimora ma molto, molto peggio.

L’organizzazione no profit Wood Fund traduce in numeri il senso di impotenza dei neri di Chicago: nel 1960 il tasso di povertà per gli afroamericani era il 29,7 per cento contro il 7,4 dei bianchi. Oggi è il 34,1 contro il 10,9. Il tasso di disoccupazione è 19,5 tra i neri e l’8,1 tra i bianchi. I neri che finiscono in prigione sono sei volte i bianchi e gli ispanici. I ragazzi afroamericani sono il 30 per cento della popolazione nella contea Cook, di cui fa parte Chicago, ma il 72 per cento degli arrestati. In un anno, su 393 minori che sono stati processati in tribunale, soltanto tre erano bianchi. La ricchezza mediana di una famiglia bianca è 97mila dollari, quella di una famiglia nera 4900. Lo chiamano “razzismo strutturale”, e ci vuole un po’ per capirlo, bisogna passare ore e ore a parlare con i neri che lo hanno sperimentato per capire quanto è diverso dal razzismo che conosciamo in Europa. “Ho passato anni a preoccuparmi di quello che pensava la gente di me, a indignarmi se mi toccavano i capelli crespi come se fossi un’attrazione, poi ho deciso che non mi importava più. Pensate quello che volete, l’unica cosa che conta è risolvere i problemi”, si sfoga una operatrice sociale. In sintesi: a Chicago il razzismo non è un pregiudizio, ma un giudizio argomentato. In Europa il razzismo è spesso diffidenza dal diverso, è quel tipo di razzismo che spinge i tifosi allo stadio a ululare contro i calciatori neri e a tirare le banane. A Chicago è diverso: un’impresa che sceglie di assumere un bianco al posto di un nero, anche a parità di condizioni, sta facendo un ragionamento razionale, non da cavernicoli.

Se a Chicago nasci nero, tuo padre o il padre dei tuoi vicini probabilmente sarà in carcere: dagli anni Settanta lo spaccio di crack è punito più severamente dello spaccio di cocaina, perché il crack è la droga dei nei poveri e la coca dei bianchi. Se nasci nero, andrai in una scuola da neri, dove c’è il posto di polizia accanto alle aule e puoi finire arrestato anche soltanto per un insulto alla maestra. Una volta in carcere, la tua vita è segnata, nessuno assume un ex detenuto. A quel punto non resta altro che entrare in una gang, per non essere soli, anche col rischio di essere uccisi prima di diventare maggiorenni. Se nasci nero, secondo un’inchiesta del Chicago Tribune, a scuola rischi di essere meno brillante degli studenti bianchi. Perché nei quartieri neri sono state usate con disinvoltura vernici al piombo che causano problemi di apprendimento.

Scappare è impossibile, Chicago è più segregata del Sud Africa durante l’apartheid. I neri rimangono nei quartieri da neri e i bianchi in quelli da bianchi, con le case di mattoni a vista, i canestri da basket e i parcheggi per i Suv. Una delle spiegazioni di questo fenomeno è la gentrification: appena un quartiere migliora, magari perché aprono negozi o c’è un investimento pubblico, i prezzi delle case salgono, con essi gli affitti e le tasse sull’immobile. I neri che vivevano nel quartiere non possono più permetterselo e devono andarsene, la comunità si frantuma, le reti sociali si distruggono, famiglie già provate da mille sventure si disperdono sempre più in periferia. L’illusione dei mutui subprime, quelli concessi a persone senza reddito e senza lavoro che speravano di lucrare sull’aumento di valore della casa, sono svaniti lasciando uno strascico di debiti e case che non saranno mai vendute. Le politiche pubbliche non funzionano, e comunque di soldi ce ne sono sempre meno: Chicago sta sprofondando in una crisi fiscale, c’è un buco di 20 miliardi nei fondi pensione dei dipendenti pubblici, il sindaco si arrampica su un progetto di ristrutturazione del debito mentre i Repubblicani (che governano lo Stato dell’Illinois) cercano di usare la bancarotta imminente per distruggere sindacati e welfare State.

Le speranze sono tutte nel settore no profit. C’è la grande filantropia, come la MacArthur Foundation con il suo patrimonio da 7 miliardi di dollari, una specie di Stato nello Stato, che scrive i piani di sviluppo della città con la McKinsey e la Brookings Institution. E poi ci sono mille piccole realtà come il Cara Program. Ogni mattina l’energica Maria Kim, a capo dell’organizzazione, riunisce gli alunni per il meeting motivazionale: a turno entrano nel cerchio, si presentano, raccontano la loro storia e i loro obiettivi, mentre tutti gli altri “alunni” applaudono e incoraggiano. Sono praticamente tutti neri. Il Cara Program aiuta ex detenuti e altri soggetti rimasti ai margini a trovare un lavoro: ogni mattina gli alunni devono timbrare un cartellino, per abituarsi alla puntualità, imparano ad affrontare un colloquio di lavoro, ricevono anche gli abiti adatti, poi vengono seguiti nel primo anno. Se ogni mese risparmiano 20 dollari, il Cara ne aggiunge 100, per incentivare una gestione finanziaria responsabile, i soldi si possono usare però solo dopo i primi 12 mesi. Risultato: il 78 per cento degli ex alunni Cara mantiene il posto di lavoro per più di un anno contro la media nazionale del 25 per cento. Tra le aziende che accolgono più studenti c’è Eataly, di Oscar Farinetti (che paga salari orari di 9 dollari).

Il Cara è solo uno dei mille snodi di un sistema di welfare parallelo che compensa una parte di buchi di quello ufficiale. Ma servirebbe molto di più, servirebbe la politica per sconfiggere il razzismo di sistema che condanna i bambini neri a vivere come se Marthin Luther King non fosse mai nato. “Chissà, forse Obama quando sarà libero dai vincoli che gli impone il mandato presidenziale potrà finalmente affrontare il tema del razzismo in modo esplicito, potrà cambiare le cose molto più da ex presidente che ora”, dice qualcuno. Ben sapendo che è un’illusione.