Cultura

Trentino, a Pergine 10 giorni di teatro per la 41esima edizione di ‘Spettacolo aperto’

Pergine Valsugana (Trento) – C’è una città che balla attorno a questo festival vestito di blu, una città coinvolta e concentrata di magliette e volontari, giovani e giovanissimi, di biciclette e impatto zero, di camminate tra il Castello che domina e il Lago di Caldonazzo che accoglie, c’è una città che si muove uniforme e unanime dentro alle pieghe del teatro e delle sue infinite sfaccettature, fuori nelle piazze, nelle strade, tra i palazzi. Siamo in odor di Cesare Battisti e l’ombra lunga di uno degli ospedali psichiatrici più grandi d’Italia, chiuso solamente nel 2002. E’ tutto fuori il “Pergine Spettacolo Aperto” (i primi dieci giorni di luglio), uno dei più antichi festival teatrali nostrani con i suoi 41 anni e le varie trasformazioni che lo hanno portato a essere questo felice ibrido che abbiamo assaporato, come mordere un canederlo, come staccare un pezzo di carne salada, come affondare nella polenta valsugana gialla e picchiettata come l’arte del puntinismo.

Restando in Trentino, Pergine (la locandina ci porta in un mondo futuro dove un cetaceo nuota nel cielo, o, più realisticamente tra le onde e sullo sfondo lo skyline di quella che era una città adesso, per l’innalzamento delle acque dovute allo scioglimento dei ghiacci, sommersa nelle profondità oceaniche) è più aperto e popolare rispetto alle altisonanze di Dro (Trento), ci si sta comodi senza vette inavvicinabili dove giungere, senza asticelle da alzare e termini di paragone declinati al superlativo, più materiale e meno etereo, più tangibile meno fumoso. Di teatro ne abbiamo visto poco. O almeno, se consideriamo, nell’annoso e scivoloso tema del “che cos’è teatro, e cosa non lo sia”, il teatro convenzionale quello costituito da palco e platea, attori e parola. Qui è il ribaltamento che incuriosisce e la scelta che quest’anno affondava nel tema caldo, l’hotspot tanto caro agli esperti di geopolitica, nell’abbinamento teatro-economia, argomenti distanti con il rischio dello sconfinamento nel semplicistico o, al contrario, nel tecnicismo. Qui, né l’uno né l’altro.

Curiose le opzioni come “XY” dei “Manimotò”, si rifà alla distinzione in genetica tra maschile e femminile, che volevano condurci in un asettico futuro prossimo dove, con tute bianche candide protettive, nell’immaginario tra Heisenberg quando “cucina” la metanfetamina in “Breaking Bad” o Dexter quando affetta i serial killer sfuggiti alla giustizia, un kit di sopravvivenza e una maschera (caldo soffocante), avremmo dovuto scegliere e posizionarci tra le decine di domande che arrivavano in audio. Tutto però è rimasto nel tentativo, nell’ipotesi, nell’idea, nella freddezza di spostarsi impassibilmente, senza alcun confronto sul tema, senza passaggi né articolazione del pensiero, da una parte all’altra della stanza. Al di là delle tute che ci facevano sentire tutti astronauti, nessun piccolo passo è stato compiuto nello scavare dentro i meccanismi etico-politici, dentro le convenzioni sociali tra paura e vergogna delle proprie opinioni.

Altra questione che è rimasta in sospeso tra le aspettative teoriche e l’effettiva riuscita è la performance ideata dai Rimini Protokoll, un format che sta girando vari Paesi continentali il loro “Home visit Europe” dove un abitante della città presta la sua abitazione e una manciata di spettatori prima singolarmente e poi a squadre giocano in una sorta di quiz, di alleanze e strategie, tra Giochi senza Frontiere e Monopoli, Gioco dell’Oca e Risiko per vincere più fette possibili di una bellissima torta al cioccolato con il globo disegnato con lo zucchero a velo. Purtroppo i Rimini non potevano prevedere la Brexit quindi tutta la bellezza e l’armonia e la gioia dello stare insieme, unita alle minacce dell’Isis da una parte e i continui e massicci sbarchi dall’Africa hanno ultimamente indebolito l’immagine idilliaca che il gruppo tedesco voleva promuovere avallando la tesi della fratellanza tra i popoli del Vecchio Continente. I ragazzi presenti erano anagraficamente collegabili alla “Low Cost Generation” pieni di slogan svuotati di contenuti con in testa soltanto l’andar via, il lavorare a Londra, l’Erasmus, un melting pot di “amicizie” internazionali coltivate nei social, di esperanto di amori lontani, in un mordi e fuggi in un humus dove tutti sono stranieri e quindi nessuno lo è, ma senza radici, senza tradizioni, a consumare il tempo in città di passaggio con compagnie di passaggio, vite in perenne movimento e ansia di cambiamento, di spostamento.

Che cos’è una città? Non le sue strade, le piazze, i movimenti. Se lo sono chiesto gli Effetto Larsen che, attraverso un sondaggio-questionario, hanno intervistato giocosamente la cittadinanza per creare una mappa emotiva di Pergine. Ne è nata (esperimento che hanno condotto anche in Sri Lanka, Scozia e prossimamente a Torino) una cartina (in qualche modo l’operazione è simile a “Tappa” de Gli Omini), riprodotta in formato gigante, con i punti cardine dove un abitante andava a scuola e un altro ha dato il primo bacio, abbinato ad un colore di riferimento e a una sensazione-sentimento. Alle mura appese fotocopie e fotografie e disegni di passaggi, di racconti, a terra soldatini e playmobil per narrare anime e passaggi, famiglie e paesaggi mutati: utile, fondamentale, sostanzioso, necessario.