Cultura

A Castiglioncello il teatro di ricerca e sperimentazione (e talento)

Lo scollamento tra la parte superiore, il Castello Pasquini – patchwork monolitico di pietra stratificato nei secoli dove si costruiscono, affinano e svolgono gli spettacoli – e la parte inferiore di Castiglioncello, nel livornese – scogli, mare, ville e la piazzetta con le macchine di grossa cilindrata – è ancora lì ben presente e, nella calma olimpica di pinete e infradito, gelati e fritture miste, fa frizione. Sembrano mondi separati, come se il Castello sulla collinetta sia stato trasportato, messo lì, appoggiato, portato da un altro mondo. Per una stazione di villeggiatura borghese le proposte di “Inequilibrio”, che da sempre punta sul teatro di ricerca e sperimentazione, risultano ostiche e respingenti senza nomi popolari di richiamo. D’altro canto il cartellone, per addetti ai lavori e operatori, è molto consistente (fin troppo con sei-sette proposte giornaliere) e confortevole, gustoso e fruibile.

Quest’anno due sono stati i crucci che hanno piegato, ma non spezzato, Armunia: la tensostruttura, che è stata dichiarata inagibile riducendo drasticamente gli spazi per il festival, e l’amministrazione comunale che dal prossimo anno riprenderà sotto la propria ala la gestione del Castello per eventi e manifestazioni spedendo l’organizzazione della rassegna, i due direttori Fabio Masi e Angela Fumarola, e lo staff di una decina di persone nei dintorni di Castiglioncello. Il Castello è fondamentale per la vocazione intima della kermesse, le residenze invernali che sono una grande risorsa soprattutto in termini di abbattimento dei costi. Per sopperire all’assenza del teatro-tenda circense sono stati utilizzati i limitrofi Teatro L’Ordigno di Vada per la prosa e la Sala Nardini di Rosignano per la danza. La maggior parte delle proposte sono prime nazionali.

Si torna da Castiglioncello pieni di nuovi appunti e spunti emersi dal “Più carati” de Gli Omini, il progetto “Infinita guerra italiana” diviso in quattro parti a cura dei Gogmagog scritto da Virginio Liberti, l’“R.osa” con Claudia Marsicano diretta da Silvia Gribaudi. Cominciando da quest’ultimo (nel titolo la parola “osare” perché la donna ha certamente più coraggio dell’uomo), la Marsicano (anche nell’ultima produzione di Simone Perinelli, “Made in China”) mette in campo, con autoironia e forza, flessibilità e atletismo, il suo corpo, di per sé ingombrante, che qui riesce a smantellare e giostrare, plasmare e deformare, contorcere e modellare, giocando nei panni di una pseudo insegnante di aerobica e fitness molto anni ’80, una sorta di Jane Fonda o Heather Parisi nel suo gramelot italo-americanizzato, con dieci “esercizi” (curati dalla deus ex machina Gribaudi) sospesi tra ginnastica e training attoriale. La Marsicano, seppur poco più che ventenne, ha già un ampio ventaglio di possibilità sceniche, possiede leggerezza e potenza e un’aura catartica difficile da trovare, si mangia la scena, la riempie non con il volume, ma con l’energia, è un catalizzatore naturale di attenzione, un fulcro che con poche semplici mosse tiene in pugno la platea, ora la sospende adesso la accompagna, ora la stringe adesso la libera: talento puro.

Del progetto sulle “Battaglie” dei Gogmagog qui parleremo dello step portato in scena da Ciro Masella (estate piena per l’attore di Castri, Ronconi, Tiezzi, Massini, che affronta oltre a questo altri due debutti: al Cimitero monumentale della Futa con Archivio ZetaMacbeth”, al festival di Radicondoli “Il Generale” su partitura di Emanuele Aldrovandi). La scrittura di Liberti (con un Masella intenso e sempre più baciato dal dio del palco) parte in profondità, scava nella malattia della sclerosi multipla, ne tocca intimità e rovinosità fisiche ed emotive e impotenze fin quando il germe del maschilismo, della misoginia, della frustrazione non prende il sopravvento incrinando, anche con l’ausilio di un’atmosfera poliziesca e noir che annacqua la potenza della prima parte, la riflessione che poteva scaturire, infilandosi in un pertugio caotico. La poesia finale, tra Gadda, Pavese e Rodari, tutta giocata nell’alternanza di una parola con l’iniziale S. e l’altra con la M., ridona un tocco artistico allo sfogo poco comprensibile precedente.

Gli Omini infilano un successo dopo l’altro, infornate croccanti di drammaturgie popolari che affondano le radici in un sociale raccontato con uno sguardo, un aggettivo, un intercalare. Dopo “La Famiglia Campione”, scarto decisivo rispetto al percorso fin lì intrapreso, e “Ci scusiamo per il disagio”, questo “Più Carati” (con il supporto di Armando Pirozzi, penna attenta) apre il vaso di Pandora dell’importanza dei soldi e come questi (la mancanza come l’arrivo improvviso) possano distruggere amicizie e parentele. Ma il ritrovamento di soldi e gioielli è soltanto il modo per affondare la lama dentro la situazione a loro più congeniale, quell’uomo medio perdente che, abituato al disagio, al ritardo, al secondo posto, al quasi, al forse, sballottato nelle intemperie dei poteri e nelle vicissitudini della burocrazia, non riesce a gestire le gioie, le fortune, la positività, cercando sempre il pessimismo e il complottismo per giustificare le proprie mancanze, inadeguatezze, debolezze.