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Egitto, Amnesty contro l’ok del Mise alla vendita di software-spia: “Morte Regeni rischia di diventare un altro caso Alpi”

Il portavoce dell’organizzazione per il rispetto dei diritti umani Riccardo Noury boccia il via libera del ministero ad Area Spa: “Che ne è stato delle misure graduali e progressive promesse da Gentiloni? Il richiamo del nostro ambasciatore è rimasta la prima e l’unica finora adottata”. E chiede il blocco di nuove forniture di tecnologie dual use a Il Cairo: “Possono essere utilizzate per il controllo dei dissidenti”

“Non possiamo accettare che la morte di Giulio Regeni diventi un nuovo caso Ilaria Alpi”. Un timore che Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International per l’Italia, proprio non riesce a nascondere. E che l’atteggiamento del governo italiano non fa che aggravare: “Mi sarei aspettato l’adozione di quelle misure graduali e progressive nei confronti dell’Egitto promesse dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni – fa notare –. Purtroppo, il richiamo del nostro ambasciatore da Il Cairo, è rimasta la prima e l’unica finora adottata”. Riserve aggravate dalla notizia, pubblicata da ilfattoquotidiano.it, dell’autorizzazione concessa dall’Autorità per l’esportazione beni a duplice uso del ministero dello Sviluppo economico alla vendita al Consiglio nazionale di difesa egiziano di un “sistema di monitoraggio delle comunicazioni su rete funzionante con protocollo internet” da parte della società italiana Area Spa. “La sensazione è che si stia procedendo su due binari paralleli – spiega Noury –. Da un lato quello dell’azione diplomatica di pressione del governo italiano su quello egiziano per il caso Regeni, dall’altro quello delle relazioni commerciali e militari che proseguono regolarmente. Come se i due binari fossero del tutto sganciati l’uno dall’altro”.

Che giudizio dà sull’autorizzazione concessa dal Mise alla società Area Spa ad esportare in Egitto il suo sistema di sorveglianza delle comunicazioni?
Assolutamente negativo. E’ una vicenda che non mi piace per niente. Di fronte ad una situazione che ci preoccupa molto – non solo perché un nostro connazionale è stato barbaramente ucciso in quel Paese, ma anche per le sistematiche violazioni dei diritti umani denunciate da parte delle autorità de Il Cairo – prudenza e coerenza imporrebbero di non concedere alcuna autorizzazione all’export dei cosiddetti sistemi dual use.

Cosa si sarebbe aspettato, al contrario, dal governo italiano?

Mi sarei aspettato l’adozione di quelle misure graduali e progressive nei confronti dell’Egitto promesse dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Purtroppo, il richiamo del nostro ambasciatore da Il Cairo, è rimasta la prima e l’unica finora adottata. Mi sarei inoltre aspettato che il nostro governo interrompesse ogni attività che possa avere ripercussioni negative sul fronte dei diritti umani già di per sé critica in quel Paese.

Ad esempio?
Innanzitutto il blocco di nuove forniture di tecnologie dual use, che possono essere utilizzate anche per il controllo dei dissidenti e delle quali avete dato conto nel vostro articolo. Ma anche lo stop alle forniture di armi, che ci risulta sia proseguita anche nel 2016, oltre all’interruzione della cooperazione tra le forze di polizia dei due Stati per i programmi di formazione e addestramento degli agenti egiziani. Per non parlare di altre scelte quantomeno intempestive.

Sarebbe a dire?
Mi riferisco alla comunicazione del nome del nuovo ambasciatore, Giampaolo Cantini, in sostituzione del richiamato Maurizio Massari (che nel frattempo ha preso il posto lasciato vacante a Bruxelles dall’attuale ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ndr). Una nomina che non era necessario annunciare e che a Il Cairo è stata presumibilmente interpretata come un segnale di progressiva normalizzazione nelle relazioni tra Italia ed Egitto. L’esatto opposto delle misure graduali e progressive che ci si aspettava dal nostro governo.

Sta dicendo che la crisi diplomatica tra Italia ed Egitto è più di facciata che di sostanza?
Dico che la sensazione è che si stia procedendo su due binari paralleli. Da un lato quello dell’azione strettamente diplomatica di pressione del governo italiano su quello egiziano per il caso Regeni. Dall’altro quello delle relazioni commerciali e militari che proseguono regolarmente. Come se i due binari fossero del tutto sganciati l’uno dall’altro. Con un’ulteriore aggravante.

Quale?
Che in questo contesto, la vicenda di Giulio Regeni sembra di fatto trattata come un caso isolato. Ci si preoccupa del suo barbaro assassinio sul fronte dell’azione diplomatica italiana ma, allo stesso tempo, si continuano ad intrattenere relazioni ‘pericolose’ con un Paese dove, solo l’anno scorso, sono stati denunciati 1.176 casi di tortura dei quali 500 con esito mortale. Leggere il caso Regeni fuori da questo contesto vuol dire ignorare la realtà. E cioè che in Egitto è in atto una sistematica violazione dei diritti umani che Giulio ha provato sulla sua pelle, vittima di un arresto arbitrario, una sparizione forzata, torture efferate e, infine, di un omicidio.

Il tema sul tavolo, però, è anche un altro: come conciliare la necessaria lotta al terrorismo con le esigenze di tutela dei diritti umani?
Dall’11 settembre 2001, dopo gli attentati alle Torri Gemelle, ci sentiamo ripetere che i diritti umani sono un ostacolo alla sicurezza. Noi, al contrario, abbiamo sostenuto – e i fatti ci hanno dato ragione – che quando la battaglia contro il terrorismo si combatte con l’arma del terrore di Stato non si va da nessuna parte. Magari si riesce a mettere in sicurezza, nel breve periodo, una parte del tuo Paese. Ma nel lungo periodo il gioco non vale la candela e i danni superano ampiamente i benefici. L’Egitto ne è un esempio.

In che modo?
Stiamo parlando di un Paese che ha di fronte a sé una minaccia terroristica vera, non c’è dubbio. Ma che, per combatterla, ricorre a leggi liberticide, sparizioni e torture che criminalizzano attività del tutto lecite e non violente. Basti pensare alle numerosissime imputazioni di terrorismo formulate a carico di avvocati, di attivisti per i diritti umani, di giornalisti, fotoreporter e degli stessi consulenti della famiglia Regeni. Una situazione inaccettabile. Come inaccettabile è l’atteggiamento di un Paese come l’Italia, che equivale a dire: “Fate pure, noi facciamo finta di non vedere”. Stessa storia, tanto per fare un altro esempio, in Arabia Saudita che, con il pretesto della lotta al terrorismo, abbiamo riempito di bombe che assai probabilmente ha usato per compiere crimini in Yemen.

L’omicidio di Regeni, malgrado il suo orrore, poteva essere l’occasione per cambiare le cose?
C’era la speranza che la morte di Giulio potesse rappresentare uno spartiacque. Che avrebbe potuto segnare, se si fosse raggiunta la verità sul suo assassinio, un cambio di passo dal punto di vista etico nella politica estera e commerciale. Invece sta accadendo il contrario: il governo italiano sta cercando una soluzione che non faccia perdere la faccia, far vedere che sta premendo per avere la verità, sperando di ottenerne una per poi chiudere questo capitolo Egitto. Gli altri morti, tanto, non ci riguardano e noi continueremo a fare come abbiamo sempre fatto su armi, sistemi di sicurezza e partnership strategica per il contrasto all’immigrazione. Insomma, la speranza iniziale è stata completamente disattesa.

Crede che siamo ai titoli di coda e che la verità sia ormai impossibile da raggiungere?
Mi auguro di no. Di certo, non possiamo accettare che la morte di Giulio diventi un nuovo caso Ilaria Alpi. Oggi, a distanza di 22 anni, non sappiamo ancora cosa sia davvero capitato alla giornalista della Rai o al fotoreporter Andrea Rocchelli, ucciso due anni fa in Ucraina da un colpo di mortaio, insieme all’attivista per i diritti umani e nostro caro amico Andrei Mironov. Tenere viva la memoria e i riflettori accesi su Giulio Regeni e sui tanti altri casi come il suo, risucchiati dal grande buco nero della verità negata, è certamente una delle nostre principali priorità. Ma occorre l’aiuto di tutti. Governi compresi. Prima di tutto di quello italiano.

Twitter: @Antonio_Pitoni