Politica

Il Pd romano e il suicidio assistito del Nazareno

di Enzo Marzo

Strano, mi ha sorpreso molto che nessun giornale abbia sottolineato il vero dato singolare delle elezioni amministrative. Tutti si sono dilungati sul successo del M5S, ma come si può invece sottovalutare il risultato clamoroso del Pd romano? Certo, ha preso pochissimi voti, ma decisamente troppi rispetto a quelli che ci si potesse aspettare. Che alcune migliaia di romani siano usciti da casa per andare a votare per Roberto Giachetti sa di miracolo, di esercizio di masochismo estremo. Oppure, forse, sono voti di romani che negli ultimi anni hanno vissuto all’estero. Oppure di irriguardosi che non hanno voluto rispettare la più che esemplare decisione di Renzi di risolvere la questione romana con la propria eutanasia. L’amministrazione romana aveva ancora tre anni di vita, ma il genio politico ha deciso di farla finita subito e consegnarla all’avversario.

Il suicidio assistito (da Orfini) avrebbe avuto una grande dignità. Purtroppo non abbiamo apprezzato i terminali sussulti di ripensamento. Chi si suicida ha il dovere di non mostrarsi debole proprio all’ultimo. Non ci è piaciuto quindi il tentativo finale del partito di Odevaine, proprio “alla disperata”, di acchiappare qualche voto a destra con l’arruolamento di Flavia Perina. E dove mettiamo i famigerati Casamonica? Il loro endorsement per Giachetti è stato importante dal punto di vista dei valori e del contributo intellettuale, ma ha leggermente imbrattato un suicidio che poteva essere molto onorevole.

Comunque, abbandoniamo il triste funerale romano di due statisti come Renzi e Orfini e vediamo cosa è avvenuto in Itala. Nessuno l’ha detto con chiarezza, mi pare. Queste elezioni hanno sancito da parte dei cittadini la sconfitta secca del corso politico degli ultimi anni, che è stato perseguito, al di là della Costituzione stessa, da Giorgio Napolitano. Persino Renzi forse all’inizio fantasticava vie diverse. Da quando Napolitano non fece votare la mozione contro il governo Berlusconi firmata dalla maggioranza dei deputati e regalò al pregiudicato di Arcore il tempo per comprarsi i parlamentari necessari ad evitare il ribaltone, l’Italia è stata commissariata dal Quirinale e costretta a una inderogabile politica dell’Inciucio. Il 19 giugno è morto il patto del Nazareno, che aveva ufficializzato quella deplorabile politica. E già qualche giorno avanti era stata sancita la caduta verticale del renzismo. Certificata, ancor prima di aprire le urne, dalle dichiarazioni di candidati Pd che avevano capito che se volevano affermarsi dovevano dividere le loro sorti da quelle in rovina del loro Segretario-Presidente. Cominciando da Milano.

Purtroppo non tutti si mettono l’animo in pace, e così i politologi di regime stanno cercando di motivare una nuova “grande coalizione” sventolando il pericolo degli opposti estremismi e dei populismi, e così le “forze sane della nazione”, che coincidono perfettamente con la “Casta” di destra e di sinistra (si fa per dire), si devono unire per mantenere le vecchie burocrazie di partito, i poteri periferici ormai intrisi di corruzione, la vera antipolitica, che è quella fatta di demagogia, di centralismo, di retorica del nuovismo, del giovanilismo, delle Riforme. Tutti vizi che sono stati schiacciati dal voto amministrativo.

Più volte qui sopra abbiamo insistito su un patto di civiltà tra forze politiche su un comune proponimento di “non esagerare” e quindi si ripristinare nel confronto politico tacite regole di civiltà. Almeno di non estremizzare i vizi appena citati. Di mettere fuori dalla porta della politica chi abusa delle parole stravolgendone il significato, chi si affida alla turlupinatura sfacciata della massa.

Parole, queste, sparse nel deserto, se pensiamo che – tanto per fare un esempio – tutta la campagna elettorale del Pd contro il M5S si è svolta su due refrain: le candidate grilline sono inesperte e sottomesse a un sovrastante potere assoluto. L’accusa è venuta da un presidente del Consiglio che è diventato tale non avendo alcuna esperienza parlamentare. Non minore la demagogia sull’autoritarismo antidemocratico presente nel movimento grillino, che sarà anche vero, ma in un paesaggio di partiti dei quali non ce n’è uno che non sia personale e antidemocratico. Il Pd romano poi su questo tema è stato davvero patetico, avendo offerto appena pochi mesi prima lo spettacolo di un intervento con le scarpe chiodate contro un proprio sindaco eletto dai cittadini col 64% dei voti.

Oggi la questione democratica del nostro paese si può riassumere in una sola espressione: “libertà di stampa, una televisione non asservita al presidente del consiglio e un’informazione consapevole del suo dovere deontologico di smascherare caso per caso la demagogia e la menzogna da qualunque parte provenga”. Ma quanto lontani da questa consapevolezza sono i nostri opinion leaders e più specificatamente gli operatori dell’informazione?