Zonaeuro

Brexit, Regno (dis)Unito

Mentre sto scrivendo, i listini rintoccano: -11.1% Ftse Mib, -12.2% Ibex, -6.7% Dax, -8.2% Cac, -7.9% Nikkei, -20.2% i bancari (aspettando Wall-Street). Continuate pure a chiamarli populistiPoco meno di quattro anni fa, in quello che si sarebbe rivelato come uno dei post più profetici del mio blog personale, scrissi che “il sanguinoso dualismo che si sta prospettando all’orizzonte non è più tra destra e sinistra – categorie sepolte dalla storia e facenti oggi parte di un’unica poltiglia ideologica, finalizzata soltanto a preservarne gli illegittimi interessi accumulati sin qui – ma è tra nuove forme di localismo e un furioso progetto di pancontinentalismo mercantile che, senza alcun rispetto per le specificità territoriali, sta tentando di diluire la bandiera della Comunità nel solvente chimico dell’economia”.

Non occorreva chiamarsi Nostradamus per indovinare cosa sarebbe accaduto nel medio termine. Era sufficiente una discreta conoscenza dei loschi obiettivi del disegno europeista (soppressione delle sovranità nazionali, trasferimento della governance internazionale alle banche, progressiva esautorazione del potere politico dei cittadini) e possedere un po’ di intuito su come l’evoluzione della comunicazione liquida dei social network avrebbe accelerato e diffuso il disgusto per l’inganno eurocratico, producendo quella crescente disaffezione per l’Unione Europea che, mixata ieri al tradizionale orgoglio anglosassone, ha generato il cocktail micidiale che gli Inglesi (non quelli di Londra, dove i remain erano al 60%) e i Gallesi hanno rifilato a Merkel e dintorni. Cin-cin.

Mi limito a registrare come, al di là di improduttivi entusiasmi, a prendere apparentemente a schiaffi il turbocapitalismo finanziario, espresso in questi anni dall’Unione, sia stato proprio il paese che, oltre ad ospitare una delle più antiche borse del mondo, più di ogni altro ne interpreta da sempre lo spirito espansionistico e neocoloniale. Ma lo abbiamo detto: così come l’ansia di cambiamento emerge sempre più chiaramente (anche in Italia) dalle periferie dei grandi centri urbani, anche il leave ha trionfato dappertutto ad esclusione della City, dove cioè si concentrano gli interessi e gli affari dei ceti abbienti. Ed ecco allora che la mia profezia (per la quale – ricordo – ho usato l’aggettivo “sanguinoso”) assume connotati strettamente connessi, oltre che ad anacronistiche pulsioni irredentiste, soprattutto all’irrisolta e gravissima questione della distribuzione della ricchezza nelle economie cosiddette avanzate.

Sembrerebbe evidente. Eppure, basta aprire un qualsiasi quotidiano finanziario per scoprire improbabili e divertentissime analisi sulle contromisure che si vorrebbero adottare per minimizzare i danni dello tsunami finanziario e ristabilire gli equilibri economici e commerciali (come se la ripatrimonializzazione delle banche fosse in cima alle preoccupazioni di sora Cesira…). Inizialmente ero convinto che tutti questi templari del profitto, questi impenitenti bocconiani 2.0, questi sepolcri imbiancati del neoliberismo ad ogni costo, fossero soltanto dei raffinatissimi complici di una forma mentis patologica e patogena, illusoriamente convinta di poter creare ricchezza dal nulla per sempre e senza scontentare nessuno. Invece, col passare degli anni, e avendoli conosciuti dall’interno, mi sono definitivamente accorto che, molto più semplicemente, non ci arrivano!

Per queste persone, i concetti di misura, di sufficienza, di abbastanza sono banalmente non pervenuti. Devono divorare a più non posso e senza alcuno scrupolo tutto ciò che il sistema di riferimento a cui appartengono mette a loro disposizione. La verità è che ad essere sull’orlo del collasso non sono gli equilibri valutari, ma quelli sociali. Questi professoroni del capitale però non capiscono: continuano a definire populista chi osa contestare questo disegno criminale, manipolano l’opinione pubblica con qualsiasi (ripeto: qualsiasi) strumento a disposizione, gettano fango sullo stesso funzionamento della democrazia (qualora questa produca risultati ritenuti “irresponsabili”). Allora, a questi paladini della responsabilità, sarebbe interessante chiedere una valutazione sull’evoluzione, proprio durante la cosiddetta crisi, dell’indice di concentrazione della ricchezza che ogni anno Eurostat calcola e diffonde. Una delle poche cose per cui, ai miei stanchissimi occhi, questa idea di Europa abbia ancora un senso.