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Pensioni, il buco nei conti del fondo dei poligrafici e quegli assegni dimezzati

Editori e sindacati, che siedono nel cda del Fondo Fiorenzo Casella, a suon di prepensionamenti hanno finito per svuotarlo delle riserve e della sua base imponibile: su 20mila iscritti i contribuenti attivi sono ormai solo 3.800. E gli altri si sono visti ridurre del 50% le prestazioni integrative. Ora contestano sprechi e alti costi di gestione

Pensioni integrative dimezzate per far fronte agli squilibri legati alla riduzione dei contributi e a una gestione poco accorta. Succede da oltre due anni ai poligrafici iscritti al Fondo di previdenza Fiorenzo Casella. Costituito nel 1958, dopo 57 anni conta 20mila aderenti, di cui 16mila ormai pensionati e solo 4mila attivi. E naviga in così cattive acque che i lavoratori a riposo si sono visti tagliare l’assegno prima del 25%, poi ancora di altrettanto, fino al dimezzamento.

“Operazione dolorosa ma necessaria”, dicono i gestori, per far fronte agli squilibri dettati dalla riduzione dei contributi dei dipendenti attivi e delle aziende che in meno di dieci anni hanno dimezzato le copie vendute e ridotto la pubblicità di oltre il 60%, con pesanti ricadute sull’occupazione. Qualcosa però in questa vicenda non torna e i percettori delle pensioni dimezzate vogliono vederci chiaro. Molti si ritengono ingiustamente privati di un diritto maturato. Ritengono che lo squilibrio fosse sotto gli occhi di tutti da molti anni. E che nessuno lo abbia affrontato per tempo, finendo per imporre loro l’opzione più dolorosa.

In effetti già nel lontano 1998 si parlava di un “rischio default”. Nel 2005, poi, fu un’indagine conoscitiva del Senato a lanciare l’allarme sulla sostenibilità del Fondo, segnalando che il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati era di uno a due. La piramide demografica si era dunque rovesciata. La relazione terminava auspicando un intervento pubblico per salvare il Fondo motivandolo così: “Il Casella ha svolto una funzione essenziale nell’assecondare il processo di profonda trasformazione tecnologica che ha investito l’industria editoriale nel suo complesso”. E a quanto pare ha continuato a farlo, perché nel frattempo gli accordi di ristrutturazione e prepensionamento sono proseguiti, abbassando ancora quel rapporto fino all’uno a quattro di oggi, così basso da rendere ineluttabili le decurtazioni.

Sindacalisti ed editori a braccetto – Questo è il primo punto delicato della vicenda. I pensionati con assegno dimezzato accusano gli amministratori del fondo di aver assecondato quella politica di uscite anticipate per un congenito conflitto d’interesse. Nel cda del Casella siedono parimenti editori e sindacalisti, in sostanza le stesse “parti sociali” che hanno affrontato le difficoltà del settore con processi di ristrutturazione e concentrazione il cui risultato è stato ridurre il numero dei contribuenti attivi, bruciando le riserve e portando i conti del Fondo al collasso.

Non solo. Come ha rivelato Report occupandosi della vicenda, gli editori dovrebbero versare ogni anno una quota pari a 16 milioni di euro, ma non tutti lo fanno. Non lo hanno fatto la fallita Ste di Denis Verdini e il gruppo Bonifaci, storico editore de Il Tempo (passato ora agli Angelucci). Problema: chi dovrebbe dire agli editori di farlo è il presidente del Fondo Casella, Fabrizio Carotti, che è anche il direttore generale dell’associazione nazionale degli editori. La domanda potrebbe riguardare tutti i membri del cda: quando si tratta di decidere tra una procedura di mobilità richiesta da un editore e una delibera che taglia le pensioni agli iscritti, come decideranno?

Gli editori dovrebbero versare ogni anno 16 milioni, ma non tutti lo fanno

Risponde Salvatore Curiale, componente del consiglio di amministrazione del Fondo dal 2013, designato da Asig (Associazione Stampatori Italiana Giornali). “Non c’è un conflitto d’interessi. Il prepensionamento è previsto da una legge dello Stato e le aziende procedono da sole esercitando un loro diritto. Il Fondo eroga le prestazioni a patto che siano erogate quelle dell’Inps, ed è tenuto a farlo. In altri termini la Fieg non può impedire all’azienda associata di fare accordi che tra l’altro, in molti casi, sono anche caldeggiati dai lavoratori”. Del resto, aggiunge, “proprio per far fronte allo squilibrio i contributi degli editori al Fondo sono saliti dal 7% della retribuzione del 1994 a oltre il 25% di oggi. Sono tra i più alti in assoluto”. Per quelli che pagano, certo.

Entusiasmi facili, vie d’uscita difficili – Resta il fatto che agli iscritti non è piaciuto che le decurtazioni siano piovute dall’alto all’improvviso e non senza qualche passo falso o errore sia di previsione dell’andamento sia di comunicazione. Quando fu imposto il primo taglio del 25%, alla fine del 2013, il giornalino del Fondo titolava: “Abbiamo sconfitto il default!”. Ma appena un anno dopo ne arrivava un altro, sempre del 25% e fino al 2019. Da qui, la domanda: possibile che professionisti così ben inseriti nel settore – alcuni specializzati proprio nei problemi dell’editoria, altri nel Fondo complementare dei giornalisti – abbiano “scoperto” il calo di addetti solo nel 2014, quando l’industria editoriale è in crisi nera da decenni?

Quei 32 dipendenti per 20mila iscritti – Gli iscritti insistono: il taglio non era ineluttabile. E per dimostrarlo si son messi a fare le pulci ai bilanci di gestione del Fondo, scoprendo una serie di costi e sprechi che mal si conciliavano con la situazione loro rappresentata. Hanno scoperto, ad esempio, che mentre veniva imposto loro il dimezzamento della pensione, gli emolumenti degli amministratori sono lievitati di 5mila euro, da 289.514 euro a 294.692. Molti, poi, ignoravano di mantenere una media azienda con ben 32 dipendenti (scesi oggi a 29) che costano 2,7 milioni di euro l’anno. Sono tanti? Il Fondo Cometa dei metalmeccanici, per fare un confronto, ha un numero di iscritti 20 volte superiore (417mila), ma meno della metà dei dipendenti.

Curiale spiega: “Il Casella è un fondo a gestione diretta, non a capitalizzazione come quelli nati dopo il 2005 che prendono i soldi e li danno a società di gestione del risparmio. Chiaro che hanno pochi dipendenti. Il Fondo Casella è nato nel 1958 ed è una specie di “piccola Inps”: eroga prestazioni, ha bisogno di accedere al casellario dell’Inps, fa le ricongiunzioni delle pensioni, eroga le pensioni di reversibilità, applica aliquote fiscali diverse. Quando avremo solo posizioni post 1995, quindi tutte a capitalizzazione, è un discorso che avrà una sua logica, ma finché il 90% delle prestazioni afferiscono all’ante 1995 ci vuole una struttura un po’ pesante”.

A partire da quest’anno è cambiata la governance e il cda che contava ben 24 persone è stato ridotto a sei. Da gennaio è abolito il “comitato esecutivo” di sei membri che si riunivano una volta al mese e incassavano 400 euro a seduta. Oggi ne fanno le veci i consiglieri che prendono 6mila euro l’anno. Ma il presidente incassa ancora 120mila euro l’anno.

Il giallo sul prezzo degli immobili – Ultimo capitolo: gli immobili. Anche il Casella ha ballato il ballo del mattone con operazioni controverse. Per fare cassa tra il 2004 e il 2005 il cda del Fondo ha dismesso una serie di proprietà di valore: tre palazzi di pregio a Roma e due a Genova, pagati dal fondo 97 milioni di euro e venduti a 82, perdendone più di 15. Su tutti quello di via Francia 3, acquistato per 29 milioni e rivenduto per meno della metà: 13. Un anno fa a Bologna, ricordano alcuni iscritti, presso la Cisl si è tenuta un’assemblea infuocata in cui ha iniziato a emergere la grana del patrimonio. Un membro del cda, sindacalista della Cgil, assicurava che gli immobili fossero stati venduti a prezzo adeguato. “L’assemblea chiese invano di sapere a chi e i relativi documenti”, ribattono gli iscritti. Curiale chiarisce che “i 97 milioni non erano il prezzo di acquisto ma il valore a bilancio. In pochi mesi, dopo la vendita di parte del patrimonio immobiliare per 82,2 milioni di euro, fu venduto un altro immobile per 6,6 milioni. Il Fondo detiene tuttora la proprietà dell’immobile nel quale ha la propria sede, a bilancio per un valore di 12,6 milioni di euro. Fa un totale di oltre 101 milioni. Al netto ovviamente degli affitti percepiti prima delle vendite (tra parentesi: una parte della sede è tuttora affittata a terzi, e genera dunque reddito per il Fondo)”.

Informazioni che tutti i 20mila iscritti al Fondo avrebbero gradito sentirsi dire per tempo, non a cose fatte. Ma i 16mila pensionati sono sparsi per l’Italia, molti sono anziani e sulle iniziative da intraprendere per farsi valere pesa anche la mancanza di coordinamento, così come il timore di imbarcare spese legali a fronte di situazioni già compromesse dai tagli. Così si accendono focolai a Roma, Genova, Milano, Torino, Firenze. C’è chi chiede le dimissioni degli amministratori e di modificare statuto e governance del Fondo: “Mai più un presidente espressione della Fieg e organi eletti direttamente dagli iscritti e non più cooptati dai sindacati”, è il primo punto.