Cultura

Festival della Fiaba: niente è ciò che sembra, niente è ciò che è

MODENA – Scordatevi l’incipit “C’era una volta” e il finale mieloso “e vissero tutti felici e contenti” consolatorio. Questo è il retaggio disneyano della favola. E male fa chi usa “favola” e “fiaba” come sinonimi. Al Festival della Fiaba nessuna carezza docile, nessuna dolcezza, nessuna zuccherosa spiegazione frivola e semplicistica del mondo. Qui fiaba è collegata al mondo adulto, a quello che era in origine, nei millenni, un racconto esorcizzante e simbolico, reale e metaforico allo stesso tempo, un tempo fuori dal tempo, sospeso, dove l’irreale prendeva corpo. Siamo nella cascina dove Pasolini ambientò il suo Le 120 giornate di Sodoma.

Villa Sorra, dispersa tra le campagne piatte attorno a Castelfranco Emilia, emana bellezza e inquietudine, le ombre dei tigli e delle magnolie che sembrano volerti fagocitare, in quest’aria ferma agitata dalle zanzare, tra fiaccole, lumini, candele a segnare percorsi, respiri, antri dove di lì a breve si animerà la parola ancestrale. Tra la Villa e la Limonaia, la direttrice Nicoletta Giberti (annuncia l’inizio degli appuntamenti con un campanello in stile Pifferaio magico e con la sua bandana da Jack Sparrow) ha posizionato tante suggestive baracche (ricordano quella che si costruì il pittore Ligabue sul greto del Po) dove artigiani lavorano creando performance, un’agorà vitale, uno spazio dove prendere a morsi un’atmosfera antica, arcaica.

Luci da sagra, da festa balcanica, colano dal grande palo che sembra quello della cuccagna; in un attimo siamo catapultati dentro Spoon river o in Uomini e topi di Steinbeck, quasi il mercato di Profumo di Sunskin o un borgo medievale vivo, colorato, in un clima festoso e rustico, rurale e da spaghetti western. Nell’aria odore di mattoni e Rodari, di agrumi e Kusturica, di Garrone e Calvino, Tim Burton e Fratelli Grimm, foglie secche e Sherazade, psicanalisi, cannibalismo e mito greco, Shakespeare e il Mahabharata, erba bagnata e Almodovar. Nella fiaba c’è il sangue, la morte; il cunto è un incantesimo sul tempo, lo dilata e lo contrae. La fiaba è vera e reale quanto i sogni mentre li stiamo sognando. La fiaba è attraversamenti, metamorfosi, trasformazioni, intrecci, dove niente è ciò che sembra, niente è ciò che è.

E poi sale la nebbia, le rane formano un coro tra laghetto e fiori di loto, un asino raglia alla luna buia, miliardi di lucciole (e si ritorna a Pasolini) scintillano nelle loro coreografie, passa alto un aereo, che in definitiva è una lucciola solo un po’ più grande. Tutto qui è slow, ti dà il tempo di riflettere, il mondo è lontano, siamo in un’altra dimensione di grotte e cunicoli, passaggi, vestali e chiaroscuri, valige di cartone, le cicale e i grilli di Mina.

Il Festival della Fiaba è un viaggio, un’esperienza, un altrove, nella sua semplicità ci riconsegna migliori e ripuliti ad un fuori ormai saturo di sovrastrutture, ci riporta all’essenza, all’animalità del pensiero, all’infinito che abbiamo dentro sempre più schiacciato da contingenze che ci fanno automi privi di sentimenti. Ci ha appassionato la performance Secret garden, dove l’artista Alessandra Calò abbinava negativi di figure femminili ad un percorso sonoro e a fasci di rami appesi dall’alto. Le radici che scendono sono le donne generatrici di vita e portatrici di futuro sottovalutate o meglio condannate a vivere nell’ombra, nella violenza. Le donne portano avanti i semi, i germogli, i fusti, i frutti, ma stanno al cappio, in un’impiccagione mussoliniana, queste nostre donne, le radici culturali di un popolo, mai ringraziate abbastanza, sempre tralasciate, escluse, messe da parte.

La fiaba è la ricerca del sé, del nostro talento, la nostra direzione, lo scovare il nostro cammino seguendo quella voce mistica che fa da altalena tra il mondo tangibile e quello onirico, il soffio della natura che ci scompiglia dentro e che vogliamo sedare con la razionalità. Immersi in una parentesi, sospesi e sorpresi da un mondo primordiale è l’apnea di Fuprepa, limitativo chiamarlo spettacolo, vera e propria esplorazione interattiva in solitario, a contatto con le nostre paure, ricordi, incubi. Fuprepa, di Nicoletta Giberti, è futuro, presente e passato: bisogna lasciarsi andare, solcare a ritroso quello che siamo stati, che crediamo di essere, che vorremmo essere un domani.

Ancelle silenziose ti prendono per mano, cammini nel bosco dove solo i tuoi passi fanno da cornice al nero della notte pigmentato di lucciole, la ghiaia unico punto di riferimento. Rimangono i rumori e le flebili candele, il frusciare del cuore. Oracoli come stazioni di una via crucis ti parlano sottovoce, sguardi a perdersi, conchiglie per ascoltare il flusso dell’esistenza o il canto delle stelle nel cosmo, tutto pare immobile in questa grande lezione di autoascolto che aiuta, nel silenzio, a sentire finalmente i propri pensieri e tutto è così infinito e misterioso e magnifico che ti senti piccolo e insignificante, in pace con te stesso, lontano da stupide ambizioni, dai tanti orpelli e finti abbellimenti che ci appesantiscono. In definitiva siamo anime vaganti, pastori erranti, bisognosi più di parole che di computer.