Politica

Renzi, Hollande, Merkel: leader o bottegai?

C’è un filo colore della pece che attraversa e lega i comportamenti recentissimi dei lorsignori e lorsignore che presidiano, oltre ai nostri destini, anche la dignità del Paese che gli ha affidato il compito di tutelarla: buona ultima la casalinga luterana Angela Merkel, tracotante con gli indifesi e tremebonda con i tracotanti, che abbandona nelle grinfie dell’erede di antichi impalatori ottomani Recep Tasyyip Erdogan il comico tedesco Jan Boehmermann, reo di una irrispettosa quanto innocua giullarata satirica.

Solo l’ultima di una serie di genuflessioni indecenti, iniziata con la farsa infinita del governo italiano che – come un disco rotto – continua a ripetere alle autorità egiziane di volere conoscere la verità sul turpe massacro del ragazzo Giulio Regeni; facendo finta di non vedere le irridenti manovre diversive – rivelatrici non solo di imbarazzo, quanto di palese coinvolgimento – del governo cairota e del suo leader Abd al-Fattah al-Sisi, l’ennesimo rais militare golpista issatosi al potere sul Nilo e determinato a restare in sella grazie alle azioni repressive delle sue squadracce. Ma il nostro premier Matteo Renzi, appena insediato, si premurò di andare ad abbracciare l’amico e alleato al-Sisi, tanto che ora si barcamena nel patetico quanto inutile tentativo di salvare la faccia, appoggiandosi alle cavatine rituali del suo ministro degli Esteri mollaccione (l’ex rutelliano Paolo Gentiloni), tipo gli insignificanti richiami del nostro ambasciatore per fantomatiche consultazioni dimostrative. Quando è chiarissimo che non si intende andare oltre la teatralizzazione dello sdegno. Sdegno che neppure sfiora il signore della goffaggine che siede all’Eliseo – il presunto socialista François Hollande – mentre si appresta a trattare nuove forniture di armi al solito al-Sisti, amico e alleato dei presidenti europei specializzati in selfie e furberie grossolane.

Uno spettacolo indecoroso che si spiega con una costante strategica e giustifica una considerazione d’ordine generale.

La costante: da tempo un Occidente ripiegato su se stesso non conosce altra ricetta per governare le aree calde del mondo che favorire l’ascesa al potere dei gendarmi di un ordine che ritiene (il più delle volte erroneamente) a proprio favore; come le evoluzioni di medio periodo si sono premurate di confermare: nel 1953 un colpo di Stato anglo-americano in Iran abbatté il primo ministro democraticamente eletto Mohammad Mossadeq – reo di voler liberare il suo Paese dalla colonizzazione delle multinazionali petrolifere – e riportò al potere in funzione di guardiano lo Scià Reza Pahlavi; per poi ritrovarsi la rivoluzione anti-occidentale dell’ayatollah Komeini, dei cui effetti devastanti forse solo ora intravvediamo la fine. Del resto era il segretario di Stato Usa Foster Dulles a teorizzare la messa in sella nelle periferie del mondo “di un porco, purché sia il mio porco” (riferimento al sanguinario cacicco di Haiti Papà Doc Duvalier).

La considerazione: in questo ordine mondiale in deliquio, eleggiamo i nostri presunti leader facendo sempre meno riferimento a criteri rigorosi e sempre più a ragioni indotte dalla comunicazione imbonitoria e alle logiche da reality. Il risultato è che questi sottoprodotti della politica spettacolo magari vincono le elezioni ma poi non sanno governare. Difatti, più che leader si rivelano squallidi bottegai; i quali – davanti a fatti che richiederebbero salde spine dorsali – sanno solo piegare la schiena sperando di ricavarne buoni affari con cui gratificare i finanziatori delle loro campagne elettorali. Miserevoli intenti che prefigurano inquietanti abdicazioni. E forse il filo che lega questi cedimenti, più che pece, risulta colore can che scappa.