Scuola

Università e sanità, l’imbroglio della qualità (omaggio a Umberto Eco)

Tutti i sistemi complessi hanno bisogno di valutare periodicamente la loro prestazione, ed in assenza di valutazione programmazione ed efficienza diventano aleatorie. L’obiettivo della valutazione deve naturalmente essere realistico e commisurato agli obiettivi che il sistema si pone ed alle risorse a cui ha accesso, e la misura della qualità del prodotto, se opportunamente certificata, può diventare strumento di pubblicità e di vendita.

Nei primi anni Settanta Umberto Eco descrisse in una serie di articoli, poi raccolti nel libro “Dalla periferia dell’impero”, le sue impressioni sugli Stati Uniti d’America. Gli articoli sono piacevolissimi, ancorché datati, scritti attorno a concetti chiave identificati con arguzia. Uno di questi concetti è “more”, “di più”: il produttore di beni o servizi Usa spesso sfida i suoi concorrenti offrendo al cliente “di più” in termini di qualità o di quantità, piuttosto che offrire ad un prezzo minore. Questa strategia è trasparente: poiché il guadagno del produttore è una frazione del costo pagato dal cliente, vendere “di più” si traduce in un guadagno maggiore rispetto al vendere “a meno”. Conviene al cliente questa strategia del produttore? Al cliente conviene acquistare la qualità di cui ha bisogno, ma non più di questa: la qualità in eccesso è soltanto aumento di spesa a parità di prestazioni utilizzate.

Il sistema Usa produce beni e servizi (in genere non pubblici) molto costosi ed è condannato a veder crescere costantemente i costi, come conseguenza di una competizione basata sulla qualità, e questo a prescindere dal fatto che la qualità dichiarata potrebbe non corrispondere a quella effettiva. Negli Usa si trovano i migliori ospedali e le migliori università del mondo, ma i loro costi sono proibitivi (dati Oecd, vedi figura). Oltre a costare molto al paese, questi servizi sono accessibili soltanto ad una parte degli americani: gli altri si devono arrangiare con servizi di qualità inferiore, a volte di molto inferiore. In pratica la strategia “more” produce punte di eccellenza ma a costi elevati e qualità media modesta.

I paesi europei tradizionalmente hanno cercato di resistere a questa tendenza: i servizi sono in genere pubblici e lo stato definisce dei livelli minimi di prestazione (nel Servizio Sanitario Nazionale i Lea: Livelli Essenziali di Assistenza) allo scopo di garantire l’essenziale e contenere i costi. Resistere all’attrazione del “more” è però difficile: il messaggio passa attraverso molti canali insospettati, quali le telenovelas, e il pubblico chiede “more”. Ed è ovvio che se le prestazioni di un Policlinico o di una Università italiana vengono valutate non sui Lea ma sull’immagine che traspare dalle telenovelas la valutazione del pubblico non può essere che severa. Lo stesso pubblico poi si lamenta del ticket della Sanità o delle tasse universitarie, dettagli che non traspaiono nelle telenovelas (a titolo di esempio le tasse di iscrizione dell’Università di Harvard superano i 60.000 dollari l’anno.

In Italia abbiamo adottato una variante nostrana della cultura del “more” valutiamo capillarmente alcuni servizi e ci perdiamo in statistiche altrui su come sia posizionato il nostro Servizio Sanitario Nazionale o il nostro sistema universitario rispetto a quelli degli altri paesi; ma anziché aumentare i finanziamenti li riduciamo. Cerchiamo di indurre nel pubblico l’illusione che si possa avere la botte piena e la moglie ubriaca, e ci indigniamo se nella classifica delle Università Sapienza è duecentesima: perché non siamo come Harvard? Perché per avere “more” occorre spendere “more”, e gli italiani non solo non vogliono, ma non potrebbero permetterselo neppure se lo volessero.