Società

Psiche: perché scrivo del dolore? Perché tutto il resto parla bene da sé

Il dolore non ha parole, ecco perché si serve del poeta o dello scrittore per averne. Scrivere è sof-fermarsi, soffrire, fermarsi, amarsi, non necessariamente in quest’ordine. Tutto questo non può avere a che fare anche con la psicoterapia, sebbene le distinzioni non manchino e le parole in essa non siano scritte, ma incise. Ogni cosa che fa bene all’animo è inevitabilmente terapeutica, ma la psicoterapia, prima di fare bene all’animo, deve, almeno in parte, anche devastarlo, perché solo dalle macerie è possibile ricostruire qualcosa, morire per rinascere a nuova vita. Cambiare significa farsi altro rimanendo sé stessi, una tale contraddizione non può che costare tempo, fatica, amore e dolore.

Il terapeuta deve necessariamente essere artista con la parola e con la sua assenza, il cambiamento del cliente dipende da questo, da parole che scavino in profondità e da silenzi che riportino in superficie le parole aprono e chiudono ferite, ma in modo opportuno solo se scelte, usate con uno scopo, altrimenti è un inutile sanguinare.

Molti sono i momenti in cui incontro il dolore, lo vedo negli occhi della gente, nelle loro parole, nei loro gesti, in quello che appare, ma anche in quello che sembra non avere importanza e scompare, lo vedo dentro di me, fin troppo umano come tutti. Al dolore non serve il nostro consenso, trova sempre i modi per esprimersi. Se la sofferenza avesse le ali saremmo tutti in paradiso.

Oggi esiste non solo il malessere a cui eravamo generalmente abituati, ma anche quello di nuova generazione.

I cambiamenti epocali e radicali che stiamo vivendo non hanno corrispondenza con i cambiamenti dei singoli che hanno tempi e modalità ancora troppo legati alla natura, ma che cercano disperatamente di adeguarsi ai coinvolgimenti e agli sconvolgimenti portati dalla tecnologia degli ultimi anni. Se prima il disagio era prettamente del singolo e/o in riferimento alla sua cerchia familiare e amicale ora il disagio individuale si intreccia con un disagio sociale enorme, relazioni liquide e precariato della vita lavorativa, ma non solo.

Notiamo costantemente che si comunica più tramite cellulare con persone fisicamente lontane che a voce con persone fisicamente vicine, tanto per fare un esempio alla portata dell’esperienza di tutti. La tecnologia di cui disponiamo è in parte alienante e in parte un’aggravante del malessere che ognuno può avere, cambia la rete di relazioni di cui si dispone e come con essa si interagisce.

Si deve dialogare con il proprio disagio, perché se è vero che fa male, è altrettanto vero che dirotta nel profondo come nessun’altra emozione è in grado di fare,  fa apparire fragili ossia per quello che in fondo si è, nonostante si passi la vita a convincere noi e gli altri del contrario.

Pasolini, che del malessere sociale a cui partecipiamo era stato profeta, scriveva: “La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la mia solitudine che è la mia debolezza”.

Ascolto spesso storie tragiche di uomini e di donne, i nessuno di questa società diventano qualcuno ogni volta che trovano chi è disposto ad accogliere le loro parole. Siamo fatti di solitudine, forse è per questo che accettiamo di stare con gli altri, perché l’ essere soli ci insegna a stare con noi stessi e solo allora possiamo essere con gli altri in misura tollerabile.

Questo può sembrare folle, ma non importa. Non bisogna chiedersi cosa sia la follia, perché  l’abbiamo davanti tutti i giorni, chiediamoci cosa sia la normalità, perché è questa ad essere un mistero non risolto ed è questa ad entrare nella stanza di un terapeuta molto più di quanto si pensi. Se la normalità fosse definibile non se ne discuterebbe mai, in quanto realtà assodata, non si nutrirebbe alcun bisogno di rivendicarla.

I “folli” sono tra noi, camminano con noi, lavorano con noi, giocano con noi, mangiano con noi, dormono con noi, non ne ho le prove, ma lo so!