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Koelliker auto, dal rischio bancarotta alla ripresa. Ma la ristrutturazione del debito con le banche blocca la crescita

Il gruppo italiano che importa la giapponese Mitsubishi e la coreana SsangYong ha passato il momento più duro della crisi e da un po’ di tempo ha numeri di bilancio positivi, eppure è costretto a subire le controindicazioni kafkiane del salvataggio ad opera delle banche. L'ad Ronconi: "Un accordo che ha previsto molto bene cosa succede se tutto va male, ma ha previsto male cosa succede se tutto va bene"

Obiettivo raggiunto. Anzi no. Koelliker, il gruppo italiano che importa le auto della giapponese Mitsubishi e della coreana SsangYong per rivenderle sul nostro mercato, ha passato il momento più duro della crisi e da un po’ di tempo ha numeri di bilancio positivi: “Il fatturato è in crescita e dei 900 milioni di debiti che avevamo nel 2007 ne abbiamo ripagati quasi 800”, spiega l’amministratore delegato Luca Ronconi. Ma uscire dalla procedura di ristrutturazione del debito in corso con le banche è una missione quasi impossibile. “Situazione kafkiana”, “cul-de-sac”, sono le espressioni utilizzate da Ronconi, che parla anche di sindrome dell’Hotel California.

Nella loro canzone più celebre gli Eagles cantavano “Puoi fare il check out quando vuoi, ma non puoi andartene mai (You can check out any time you like but you can never leave)”. “Ecco, a noi sta capitando lo stesso – dice il manager -. Le nostre società operative ormai sono tecnicamente in bonis. Ma rimaniamo vincolati all’accordo di ristrutturazione definito con le banche quando le cose andavano male”. E questo vuol dire soprattutto un cosa: “Non possiamo fare business come ormai saremmo in grado di fare”. Ronconi parla per esempio dei modelli di SsangYong: “Il mercato li apprezza. Potremmo aumentare le importazioni e rivendere più auto. Daremmo anche un contributo maggiore al Pil”. Solo che per importare più vetture bisogna anticipare più soldi al costruttore, un problema per Koelliker che ha a disposizione le linee di credito stabilite con la ristrutturazione del debito: “Per discutere una linea di credito dobbiamo far sedere attorno al tavolo tutte le 18 banche coinvolte nell’accordo, chiederne una modifica, ottenere il via libera da ciascuna. Per una questione ordinaria ci vorrebbero mesi. Eppure finanziare l’incremento di un business che oggi è sano è interesse delle banche stesse”.

Al gruppo Koelliker è capitato anche di vincere la gara per un’importante fornitura, ma di rischiare di perdere la commessa perché a garanzia della consegna delle auto andava presentata una fideiussione da 800mila euro: “Impossibile per noi, visto che per non violare la par condicio creditorum (parità di trattamento dei creditori, ndr), anziché rivolgerci a una sola banca per ottenere una fideiussione del valore richiesto, avremmo dovuto garantire il medesimo valore attraverso 18 fideiussioni da ottenere da ciascuno degli istituti con cui siamo in debito. Non ci abbiamo nemmeno provato”. Alla fine Koelliker si è dovuta inventare un’altra soluzione: “Abbiamo depositato sul conto corrente del cliente 800mila euro in contanti che ci verranno restituiti una volta consegnate le auto”. Di colpevoli precisi Ronconi non ne indica. “E’ il sistema che non funziona”.

E le banche? Bisogna insistere un po’ prima di fargli ammettere che sì, “il legislatore dovrebbe favorire certi meccanismi virtuosi”. Altrimenti si finisce come è successo a Koelliker, imbrigliati in “un accordo che ha previsto molto bene cosa succede se tutto va male, ma ha previsto male cosa succede se tutto va bene”. E al suo gruppo le cose sono andate bene, dopo una crisi che è iniziata, come per tutto il settore auto, nel 2007, un anno prima del crollo di Lehman Brothers: “In quel periodo Koelliker fatturava 1,4 miliardi e vendeva 125mila auto all’anno”. Erano tempi in cui le banche facevano a gara per dare prestiti, tanto che Koelliker era arrivata a 900 milioni di debiti. “Oggi li abbiamo ripagati quasi tutti. Abbiamo debiti residui per 127 milioni, la metà dei quali sono legati alla normale operatività delle società del gruppo”. In mezzo ci sono state perdite per 250 milioni di euro. La vendita dei marchi Hyundai e Kia, la cui commercializzazione da Koelliker è tornata alle case madri.

La conseguente riduzione del volume di affari, con il fatturato che nel 2013 ha toccato il suo minimo con 135 milioni, per 4.700 auto vendute. Si è passati per la riorganizzazione della struttura aziendale e, soprattutto, per le infinite riunioni con le banche. Ronconi parla di una “liturgia”, con tanto di consulenti costosi, sempre a carico dell’azienda in difficoltà. Con i funzionari delle banche che non sempre hanno avuto tempo per dedicare la giusta attenzione alle comunicazioni: “Anche alcuni degli istituti hanno dovuto affrontare gravi difficoltà. Se una banca sta impegnandosi allo stremo per sopravvivere, non può dedicare molte risorse alla sopravvivenza dei suoi clienti”. Per definire l’accordo di ristrutturazione del debito ci sono voluti 18 mesi: “Siamo partiti nel 2012, la firma è arrivata nel 2014, quando ormai molte delle condizioni su cui l’accordo si basa erano già vecchie. Nel frattempo infatti le cose avevano iniziato ad andare meglio di quanto previsto dal piano industriale”.

Così ora, per uscire dalla procedura, non basta elencare i dati positivi: “Il fatturato nel 2015 è salito a 203 milioni, con un utile consolidato di 1,3 milioni. Sono in crescita anche le vetture immatricolate: 7.200 l’anno scorso, 9.200 la previsione per quest’anno”. Da rimborsare entro il 2019 ci sono ancora 70 milioni di debiti a medio e lungo termine in capo alla capogruppo Koelliker spa, in parte legati ad alcuni immobili messi in vendita. Così i vincoli stabiliti con la ristrutturazione restano in vigore, con il risultato di fare da freno alle possibilità di sviluppo delle due società operative che commercializzano le vetture Mitsubishi e SsangYong, oltre che di Autotrade&Logistics, società attiva nel mercato della logistica auto. Una possibile via d’uscita sarebbe quella di rivedere l’accordo con le banche, ma il rischio è che si investano di nuovo mesi su mesi, prima di ottenere la firma di tutti gli istituti coinvolti. “In questi anni ho riscontrato una difficoltà nella focalizzazione degli obiettivi – dice Ronconi -. Chi era seduto al tavolo non poteva vedere l’azienda come un’entità da far ripartire, in modo da dare un contributo positivo anche a occupazione e Pil. Perché aveva come obbligo quello di minimizzare le perdite per la banca indipendentemente dalla positiva fattibilità di un piano a lungo termine”.

@gigi_gno