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Iran, Repubblica islamica 2.0?

Ospito il contributo di Giulia Palestini, laureata in Sviluppo e cooperazione internazionale. Ha svolto un periodo di ricerca sull’Iran presso il  Centre d’études et de recherches internationales dell’Istituto di studi politici di Parigi. Inoltre collabora con l’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo e con la Cattedra UNESCO “Population, Migrations and Development” dell’Università La Sapienza di Roma.

Le elezioni della scorsa settimana in Iran hanno catturato i riflettori globali. Gli analisti hanno avuto l’occasione di tastare il polso della Repubblica Islamica, pedina di alto rango nelle speculazioni geopolitiche più spinose.

Di per sé, il rinnovo del Parlamento e dell’Assemblea degli Esperti ha rappresentato un importante test sul mandato del Presidente Rohani e, più in generale, la ricalibrazione degli assetti di potere. Perlomeno formalmente. Infatti, anche se è indubbia la vittoria sulla carta di moderati e riformisti, è difficile prevedere la loro capacità di districarsi dalle maglie di un sistema che subordina distintamente gli organi eletti a quelli non eletti. Alcuni, inoltre, credono che i vincitori del plebiscito elettorale siano in malafede quando parlano di rinnovamento. Su Al Jazeera il Prof. Hamid Dabashi ha emesso un giudizio senza appello: “I retrogradi conservatori sono stati così falsi a rivendicare la vittoria quanto gli opportunisti del campo riformista sono stati impostori a rivendicare un nuovo corso per la loro sorpassata e discreditata politica”.

Quale che sia la reale opportunità di cambiamento, nondimeno il successo della “Lista della Speranza” è effettivamente spia di una speranza diffusa, in un paese afflitto da un’elevatissima disoccupazione e da pesanti limitazioni nella sfera dei diritti e delle libertà civili.

La popolazione iraniana è costituita per oltre il 60% da giovani sotto i trent’anni: un dato che non solo svela il loro potenziale politico negli anni a venire, ma che spiega anche la predilezione iraniana per nuovi strumenti comunicativi. Nonostante limiti e divieti, i social network si sono molto diffusi negli ultimi anni. Anche in Occidente hanno avuto eco diversi episodi, ad esempio: la polemica per il video su Youtube “Happy We are from Teheran”; l’endorsement di Rohani ai social media proprio via Twitter; l’esibizione dello stile di vita della jeunesse dorée iraniana sull’account Instagram “Rich Kids of Teheran”.

Non deve stupire dunque che anche le elezioni siano state investite dal fermento tecnologico. In tal senso, Telegram, applicazione gratuita di messaggistica istantanea, si è guadagnata un ruolo di primo piano. Al contrario di altri, questo strumento è pienamente legale e sarebbe utilizzato da circa un quarto della popolazione. In altre parole, un veicolo di espressione di massa, capace (anche) di influenzare il voto e disincentivare l’astensionismo. Proprio su Telegram, come anche su Instagram e Youtube, è imperversato un video in cui l’ex Presidente riformista Mohammad Khatami ha incoraggiato il voto alla “Lista della Speranza”. Il fatto assume ancora più peso considerando che sul suo nome e sulle sue immagini pende un bando di censura che i media tradizionali non hanno potuto aggirare. Il suddetto video di Khatami è diventato virale anche sull’app Dubsmash, che permette di abbinare un proprio video a degli audio di canzoni o discorsi. La prima a lanciare questo trend è stata l’attrice Baran Kosari, che come altre celebrità ha incoraggiato la partecipazione alle elezioni sfruttando la propria influenza mediatica.

Su Telegram la battaglia elettorale si è consumata inoltre a colpi di stickers, cioè adesivi virtuali da allegare ai messaggi di testo. Gli stickers “elettorali” sono spesso ironici e hanno soggetti vari, non necessariamente raffiguranti i candidati: come l’adesivo con il presidente Churchill che dice di avere nostalgia dei tempi in cui interferiva in Iran. Va detto che la coalizione di riformisti e moderati è stata penalizzata da misure come l’esclusione di numerosi candidati dalla competizione. Inoltre i media di Stato sono sbilanciati a favore dei conservatori e dell’Ayatollah Khamenei. L’intensa pubblicità proriformista su media alternativi ha quindi rappresentato un riappropriarsi di spazi in parte ‘negati’. È il caso di ricordare che un amministratore delle comunicazioni, come riporta la People’s Mojahedin Organization of Iran, avrebbe affermato che il numero degli iraniani che usano Telegram supera certamente quello di chi guarda la tv di Stato. A questo punto viene da chiedersi se Telegram rischi di essere bloccata (come già successo alla simile app Viber) e se davvero sia immune al controllo della polizia persiana: sono interrogativi che per ora restano sospesi.

Indubbiamente una pletora di canali comunicativi si sta aprendo agli iraniani e sarà sempre più difficile imbrigliarli in regole o divieti. Nell’attuale clima di dilagante evocazione di speranza, non si può non pensare al Movimento Verde del 2009, che impiegò intensivamente le reti informatiche per la mobilitazione politica. In quel momento i blog erano ancora un medium prescelto dagli attivisti. La cosiddetta “blogosfera” si erose drasticamente per l’effetto combinato dei filtri governativi (talvolta corredati da arresti) e dell’ascesa dei social network.

Una connessione ideale (in questo caso non infomatica) lega il Movimento Verde alla mobilitazione del 2016. Quest’ultima è stata più discreta e si è ramificata nell’etere informatico, più che in luoghi fisici. Con una forma narrativa moderna, la graphic novel “Zahra’s Paradise, i figli perduti dell’Iran” ha disegnato un quadro struggente del periodo del Movimento Verde, raccontando gli arresti e i rapimenti politici a danno degli attivisti. Quest’opera, apprezzata a livello internazionale e i cui autori sono rimasti anonimi per ragioni di sicurezza, ha evidenziato la dimensione del controllo informatico operato dai vertici della Repubblica Islamica. Una delle considerazioni della storia è questa: “I nostri antichi re ci cavavano gli occhi. Quelli nuovi vogliono staccare la spina a internet per eliminare il nostro riflesso”.

Tornando al presente, sebbene siano attivi diversi meccanismi repressivi, non si sono consumati stavolta, rispetto al 2009, né quel tipo di proteste né quell’epilogo. Nel prossimo futuro l’establishment potrebbe persino scoprire la convenienza di adottare strategie comunicative più liberali e trasparenti. Come si è visto, il presidente Rohani sta già dispiegando la sua realpolitik anche sul piano dei nuovi media. Da questi ultimi la sua fazione ha indubbiamente tratto beneficio. Occorre comunque sottolineare che alcuni report denunciano l’inasprimento delle restrizioni all’accesso internet e alle nuove app proprio durante il mandato di Rohani. Solo qualche mese fa, inoltre, Khamenei annunciava che l’autorità responsabile di Internet sarà inglobata nel Supremo Consiglio del Cyberspazio, organo controllato da ultraconservatori. La censura dunque prosegue. Di recente per esempio si è scagliata contro Garshad, app di paternità iraniana nata per fronteggiare la preoccupazione di incorrere nella Polizia della Moralità (l’ente responsabile dell’appropriatezza dei costumi, soprattutto femminili). Il blocco dell’app per il momento è stato aggirato, con il placet dei suoi oltre 10mila utenti.

L’attivismo virtuale è dunque una faccia della speranza di giovani e meno giovani iraniani. Un’altra è sicuramente quella dell’attivismo femminile, che merita un racconto a parte. Vale comunque la pena di ricordare l’elezione record al Parlamento di 15 donne, più altre 5 candidate al ballottaggio del prossimo aprile. Si tratta di un dato che mostra con evidenza che si sta facendo spazio, soprattutto sul lato politico dei riformisti, a una tipologia di homo novus che include il genere femminile. Naturalmente la sfera dell’attivismo femminile converge ampiamente in quella dell’attivismo virtuale. In comune sembrano avere un credo riformista ostinato ma pacifico, che riassumerei con le parole dell’intellettuale iraniano Alì Shariati, da alcuni considerato ideologo della Rivoluzione del ‘79 e morto prima che questa si “avverasse”: “Se non potete eliminare l’ingiustizia, almeno raccontatela a tutti”.