Società

L’utero in affitto è l’apice del classismo

L’ho detto e l’ho ridetto. E non mi stanco di ribadirlo. Nel tempo della falsità universale e dell’abitudine neo-orwelliana a trovare normale che due più due dia cinque, occorre insistere. E l’insistenza, diceva Adorno, è la cifra dello spirito di scissione di una filosofia non arresa all’esistente permeato dal potere.

L’utero in affitto è una pratica abominevole per quattro motivi:
a) è l’apice del classismo, perché permette a chi è danaroso di affittare l’utero di donne proletarie e disoccupate, “libere” astrattamente di farlo e materialmente costrette a farlo dalla loro condizione economica;
b) è il non plus ultra della reificazione, giacché considera il corpo della donna alla stregua di una merce disponibile e manipolabile, e il corpo del nascituro come se fosse una merce on demand, programmabile per l’acquisto da parte dell’individuo consumatore portatore di volontà di potenza smisurata;
c) è la vittoria del capitale, che ci fa credere che la libertà sia la possibilità per l’individuo di fare tutto ciò che vuole, a patto che possa permetterselo economicamente. Libertà reificata, libertà falsa, libertà ricavata per astrazione del mondo della circolazione delle merci;
d) reca con sé possibili derive eugenetiche, che ci riportano alle peggiori pagine della storia del “secolo breve”: permette, potenzialmente, di assemblare bambini come se fossero macchine, magari in futuro scegliendo minuziosamente il colore degli occhi e dei capelli.

A questi quattro motivi, che già di per sé basterebbero a liquidare l’utero in affitto come una pratica abominevole e criminale, degna di essere avversata, se ne aggiunga un quarto. Un quarto motivo che, diciamolo pure, farebbe ridere se non facesse piangere. Ed è questo: vediamo ormai gente autoproclamantesi di sinistra che difende convintamente la pratica dell’utero in affitto, della quale, dati i costi esorbitanti, mai potrà nemmeno usufruire: difende una pratica di cui potranno usufruire solo i miliardari! Si batte per i privilegi dei possidenti.

Sarebbe come se il proletariato si mettesse a difendere i panfili dei miliardari. Il controllo delle masse manipolate ha raggiunto l’apice. Esse lottano per il padrone. Si battono per il capitale, difendono l’ordine che le vuole eternamente subordinate, con il volto schiacciato perennemente dallo stivale del nuovo Signore neo-oligarchico e neofeudale.

In fondo, già ci aveva messi in guardia Antonio Gramsci, prima che il compagno Nichi facesse credere alle masse che emancipazione e comunismo coincidono con utero in affitto e mercificazione dei corpi: “Il dottor Voronof ha già annunziato la possibilità dell’innesto delle ovaie. Una nuova strada commerciale aperta all’attività esploratrice dell’iniziativa individuale. Le povere fanciulle potranno farsi facilmente una dote. A che serve loro l’organo della maternità? Lo cederanno alla ricca signora infeconda che desidera prole per l’eredità dei sudati risparmi maritali. Le povere fanciulle guadagneranno quattrini e si libereranno di un pericolo. Vendono già ora le bionde capigliature per le teste calve delle cocottes che prendono marito e vogliono entrare nella buona società. Venderanno la possibilità di diventar madri: daranno fecondità alle vecchie gualcite, alle guaste signore che troppo si sono divertite e vogliono ricuperare il numero perduto. I figli nati dopo un innesto? Strani mostri biologici, creature di una nuova razza, merce anch’essi, prodotto genuino dell’azienda dei surrogati umani, necessari per tramandare la stirpe dei pizzicagnoli arricchiti. La vecchia nobiltà aveva indubbiamente maggior buon gusto della classe dirigente che le è successa al potere. Il quattrino deturpa, abbrutisce tutto ciò che cade sotto la sua legge implacabilmente feroce. La vita, tutta la vita, non solo l’attività meccanica degli arti, ma la stessa sorgente fisiologica dell’attività, si distacca dall’anima, e diventa merce da baratto; è il destino di Mida, dalle mani fatate, simbolo del capitalismo moderno” (A. Gramsci, giugno 1918; in Id., Scritti 1913-1926, Einaudi, Torino 1984, a cura d S. Caprioglio, p. 88).