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Università, chi ha paura di un Paese colto?

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L’Università italiana sta affrontando il periodo di maggiore crisi dal dopoguerra. Secondo l’Ocse l’Italia registrava nel 2015 solo il 21% di laureati nella fascia di popolazione 25-34 anni, occupando il trentaquattresimo posto su 37 nazioni. Un indicatore purtroppo stabile da parecchi anni, mentre l’istruzione universitaria continua a crescere in praticamente tutto il resto del mondo. A fronte di tale disastroso risultato l’investimento in formazione universitaria invece di aumentare, crolla.

Tra il 2010 e il 2015, si è assistito a una riduzione di quasi il 15% delle entrate strutturali del sistema universitario nazionale, mentre le uscite sono state tagliate dell’11,5%, un miliardo in meno rispetto al 2010, con la ‘sforbiciata’ più drastica che ha riguardato le spese per il personale. Il numero di docenti e ricercatori è sceso di oltre il 20% nel corso degli ultimi dieci anni, e chi lavora in Università è oggi attualmente schiacciato tra una burocrazia imperante e il blocco degli scatti e i vincoli al turnover.

Il rapporto fra entrate proprie (tasse universitarie, prima di tutto, ormai tra le più alte di Europa) e trasferimenti è invece cresciuto dal 26% al 34,2% contribuendo a determinare la riduzione del numero degli iscritti sceso tra il 2003-2004 e il 2014-15, di oltre 60.000 unità, attestandosi a 260.245 unità con un calo del 20.4%. Complice il perdurare della crisi economica, non alimentato da un investimento coerente di borse di studio per studenti non abbienti ma meritevoli, l’accesso allo studio universitario sta tornando di nuovo a essere un privilegio dei ceti medio alti, soprattutto per chi deve andare a studiare fuori sede.

Molti osservatori – giornalisti docenti universitari e politici di variegato colore – tendono a sottovalutare il fenomeno, imputando la politica di tagli al bisogno di una sana riorganizzazione di un sistema universitario inefficiente e clientelare. Intere prime pagine di importanti quotidiani nazionali sono state riempite negli scorsi anni di casi di mala gestione di strutture universitarie, diffondendo l’idea che a essere malato era l’intero sistema e che solo cure da cavallo ne avrebbero garantito la sopravvivenza e la futura rigenerazione. L’obiettivo di un sistema della ricerca e dell’università, autonomo, autogovernato e responsabile, da valutare rispetto agli obiettivi è il mantra a cui codesti commentatori ricorrono per giustificare un progetto politico di riorganizzazione della cultura universitaria nazionale.

Il loro naso è tuttavia come quello di un Pinocchio malandrino, troppo più lungo della loro penna per essere credibile. Se realmente i governi avessero voluto perseguire in questi anni l’obiettivo di sostegno a un moderno e efficiente sistema di educazione terziaria nazionale, l’Università italiana, oltre che di giusti sistemi di trasparenza, riconoscimento del merito e controllo, sarebbe stata anche dotata di adeguate risorse. Secondo i dati forniti dal rapporto Ocse ‘Education at a glance 2015‘, che analizza i sistemi di istruzione dei 34 Paesi membri in Italia il livello di spesa per studente invece non solo è calato, ma è anche pari a solo due terzi della spesa media Ocse, mentre il finanziamento dell’Università rappresenta lo 0,9% del prodotto interno lordo: un livello simile a quello del Brasile e dell’Indonesia e anni luce lontano dal paesi come Canada, Danimarca, Finlandia, Stati Uniti, che dedicano il 2% o più percento del Pil all’istruzione universitaria. Considerato che la cosiddetta strategia Europa 2020 punta a trasformare l’Europa nell’”economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”, il disastro appare completo.

Non disporre di un sistema universitario che forma le nuove generazioni alla cultura e alle scienze è secondo molti studiosi una delle cause più importanti del declino economico di un paese. Già l’Ocse sosteneva nel suo Outlook del 2009 che i paesi destinati a uscire prima dalla crisi economica sarebbero stati quelli con maggiori investimenti in istruzione. “Il periodo che seguirà la crisi economica mondiale – affermava l’allora segretario generale Angel Gurria – sarà caratterizzato da una domanda senza precedenti per l’insegnamento universitario”. La lezione avrebbe dovuto essere ascoltata con più attenzione visto che proprio l’Italia, fanalino di coda nella spesa per l’Università è anche maglia nera della ripresa economica continentale.

Gli studi universitari non sono però soltanto un problema di crescita economica ma anche di democrazia. L’Italia negli ultimi trenta anni è stata caratterizzata non solo dalla marginalizzazione del suo sistema produttivo, ma anche da un deficit enorme di democrazia. Berlusconi prima, e Renzi adesso, sono il risultato di un sistema di costruzione dell’opinione pubblica che non ha paragoni in nessun altro paese civilizzato. Il controllo dei media spiega una parte importante della deriva plebiscitaria e del culto della personalità con il quale gli italiani hanno legittimato attraverso il voto l’ascesa e la permanenza al potere di un ceto politico che ha portato la nazione agli ultimi posti in tutte le graduatorie internazionali dalla crescita economica fino alla corruzione. Nel 2013 una rilevazione su scala internazionale della società Mediatrie rilevava che “les italiens” guardavano mediamente 4 ore e 34 minuti di televisione collocandosi al primo posto tra tutti i paesi europei. L’89,7% degli italiani guardava la televisione tutti i giorni, e il 10 % non usava altri mezzi di comunicazione portando l’Italia in vetta alla graduatoria dei paesi teledipendenti in Europa. Secondo i dati Istat di converso il 18,5% per cento degli italiani nell’ultimo anno non ha letto un libro, non ha fatto sport, non ha visitato un museo né un evento culturale, non è andato a teatro, al cinema, a un concerto e questo dato sale al 28,2% per cento per le regioni meridionali.

E’ evidente come questi dati, un mix esplosivo di teledipendenza e ignoranza diffusa, rivelano l’esistenza e il pericolo di un potere di indirizzamento delle opinioni pubbliche di portata incommensurabile. Il lavaggio del cervello quotidiano è possibile e perpetuabile tuttavia solo a condizione di non trovare nell’opinione pubblica degli antidoti sociali e culturali che permettono al cittadino medio di costruirsi un’idea ragionata della realtà. La cultura universitaria non è l’unico strumento per migliorare l’autonomia di giudizio delle persone. Si può formare un’opinione autonoma anche leggendo, viaggiando, parlando con le persone, vivendo in un contesto culturalmente attento e responsabile. Ma certo un percorso di più anni in cui ci si deve confrontare quotidianamente con l’apprendimento aiuta anche a allenare la mente al pensiero proprio. Stimola a osservare la realtà da diverse angolazioni, incentiva a spegnere la televisione e aprire un libro o partecipare a un convegno.

Berlusconi provenendo dalla cultura massonica della Loggia P2 aveva imparato bene la lezione e sapeva che il controllo dell’informazione passa sia dalla manipolazione dei media che dal disinvestimento in istruzione pubblica. Così i suoi ministri hanno usato mano pesante nei confronti dell’Università. Renzi è sotto molti aspetti il figliolo prodigo dell’epoca berlusconiana. Da lui ci si sarebbe aspettati una radicale inversione di tendenza nel riconoscimento dell’importanza di un sistema universitario sano e messo in condizione di funzionare in modo efficace. Come il vecchio maestro imbonitore, anche Renzi ha imparato però che il consenso si costruisce attraverso l’immagine, che bisogna sapere vendere e che per vendere è necessario che il cliente non abbia troppe capacità di elaborare una sua opinione propria.

L’idea che per affamare il pensiero libero serve rendere la bestia mansueta è un demone che alberga nell’animo di ogni politico che aborre la democrazia. Che attualmente sia il segretario di un partito che si autodefinisce democratico a rischiare di essere il principale responsabile dello stallo in cui versa l’Università italiana è probabilmente uno scherzo beffardo del destino