Cinema

Giornata della Memoria, Il figlio di Saul e l’ultimo sguardo sull’Olocausto. Con buona pace di Spielberg e Benigni

L'ANALISI - Dopo il film di Lazslo Nemes non ci potrà più essere un altro film sui campi di sterminio. Grande registi oscurati da uno sconosciuto ungherese che faceva l'assistente di Bela Tarr. La macchina da presa va oltre il filmabile, cos'altro si potrà raccontare dopo per immagini su Auschwitz o Birkenau? Nulla. Non c’è più nessuna soglia fisica o simbolica da varcare, nessuna scritta Arbeit Macht Frei sotto cui passare, nessun campo lungo con sullo sfondo cinte murarie e filo spinato da osservare con terrore

Inutile girarci attorno. Dopo Il figlio di Saul non ci potranno più essere film sull’Olocausto. Con buona pace di Steven Spielberg, Roberto Benigni, Gillo Pontecorvo e Costa Gavras. Giusto per fare qualche nome che ha avuto l’ardire di avvicinarsi ad una materia che continua a pulsare di orrore e morte ancora 75 anni dopo. Avvicinarsi, appunto. Perché invece il regista ungherese Laszlo Nemes è andato oltre. Non c’è più nessuna soglia fisica o simbolica da varcare, nessuna scritta Arbeit Macht Frei sotto cui passare, nessun campo lungo con sullo sfondo cinte murarie e filo spinato da osservare con terrore. E ancora: non ci sono nemmeno esterni giorno con baracche di legno o gli interni notte delle camerate dei deportati piene di letti accatastati uno sull’altro.

La macchina da presa di Nemes è semplicemente dentro lo sterminio, a un passo dai carrelli su cui vengono appoggiati i cadaveri degli ebrei gassati che vengono infilati dentro ai crematori. Lì, insistentemente, freneticamente, febbrilmente, senza un punto di fuga (si veda anche la scelta dello schermo in 4:3), con cataste di cadaveri che vengono sfiorati, intravisti, e altri cadaveri ulteriormente trascinati, fuori fuoco, poi di nuovo a fuoco. Nemmeno cinque minuti di film e da questa catasta sbuca un sopravvissuto, un ragazzino, il presunto ‘figlio di Saul’. Pochi istanti e anche questo corpo nudo, di sfuggita scorto come emaciato, rantolante, viene appoggiato su una panca per essere subito soffocato da un medico nazista. Fermiamoci un attimo qui. Il cinema e l’Olocausto. Il figlio di Saul e la rappresentazione del non filmabile. Chi potrà andare oltre questa soglia visiva e sonora? Nessuno. E soprattutto tutto ciò che è venuto prima sembra davvero poca cosa. Sarà stata una questione di pudore, un’idea di rispetto storico ed umano, ma una cinecamera non aveva mai stazionato lì dove staziona quella di Nemes.

L’assistente alla regia di Bela Tarr sul set de L’uomo di Londra li mette in fila tutti quei cineasti che hanno voluto e cercato di addolorarsi di fronte allo sterminio di massa più impressionante della storia per la sua metodicità, la sua organizzazione millimetrica, la sua coazione a ripetere per mesi ed anni. Sì perché dopo Il figlio di Saul nessuno ce la racconta più la storia del babbo che attraverso la comicità evita l’orrore al figlio. Non esiste più la sequenza (interminabile) di Benigni che ne La vita è bella traduce dal tedesco le urla di un guardiano nazista e si profonde in una snervante spiegazione di un gioco al figlio. Dopo Il figlio di Saul sappiamo che questa roba qui è tutta menzogna, una via volontariamente farlocca per non mostrarci e spiegarci niente sui lager. Niente. Perché grazie a Nemes sappiamo invece definitivamente com’è andata, cosa volesse dire essere un Kapò o un Sonderkommando (i deportati addetti al funzionamento e alle pulizie dei crematori), cosa significasse ‘sopravvivere’ là dentro: senza mediazione, col fiato addosso dei moribondi, con le Luger che uccidono a ripetizione. Non esiste fiaba, non esiste poesia, non esiste alleggerimento. L’orrore oggi è stato rappresentato e si chiama Il figlio di Saul.

Quando Jean-Luc Godard, anche se effettivamente lo disse e scrisse Jacques Rivette, criticava la (mini) carrellata di Pontecorvo in Kapò sul corpo fulminato di Emanuele Riva/Terese, rimasta impigliata nel filo elettrificato del lager, sostenendo che “la carrellata è una questione morale”, eravamo di fronte ancora all’ipotesi del ‘non detto’ esplicitamente e del ‘non mostrato’ direttamente come soluzione moralmente più rispettosa nel filmare il non rappresentabile. Oggi però le parole di Godard e Rivette sembrano diventate pesantissime e ragnatelose gabbie di pensiero per sfuggire alla verità. Non per rivalutare Kapò di Pontecorvo, ci mancherebbe, perché basterebbe soltanto riguardare la sequenza con il filo spinato alto venti centimetri in modo che deportati uomini e donne si parlino come tra vicini di casa, e riaffossarlo di nuovo. Come del resto la pomposa ricostruzione spielberghiana del lager che spettacolarizza con tanto di suspense la salvezza degli ‘ebrei di Schindler’. No, nessuno potrà più credere a queste versioni edulcorate e devianti dell’orrore. Dentro alle stanze insozzate di sangue rappreso, membra e corpi gassati, agli ‘schnell’ urlati come frustate, al moto perpetuo per sfuggire al fine vita magari inventandosi un obiettivo non direttamente riconducibile alla sopravvivenza personale, è solo qui che si mostra l’abiezione suprema dell’Olocausto. L’unica vera ed ultima testimonianza cinematografica per il Giorno della Memoria 2016, e per quelle a venire, sia Il figlio di Saul. Al resto, a tutto il resto, che c’è stato e ci sarà, anche alle vie lastricate dalle migliori intenzioni, non si potrà più credere.