Cultura

John Fox, l’eroe della battaglia di Natale che si lasciò uccidere dal fuoco amico per fermare l’assalto nazista

A ricordare il soldato nero c'è un cippo logoro in un paesino di 34 abitanti sulle colline di Lucca. Ma gli Stati Uniti gli hanno dato la medaglia solo 53 anni dopo la sua morte. E il figlio del suo comandante è tornato in Italia per omaggiarlo: "Gli afroamericani sono stati dimenticati dalla storia ufficiale"

C’è un cippo consumato e piegato dal vento, in cima a una rupe in un paesino di 34 abitanti di nome Sommocolonia, sulle colline vicino a Lucca. Per posarvi dei fiori, un uomo non più giovane ha viaggiato per 6675 chilometri, quelli che dividono la città toscana da Groton, New York. Il cippo ricorda uno dei soldati statunitensi della seconda guerra mondiale, l’afroamericano John Fox, eroe di guerra morto lì, sulle colline lucchesi, esattamente 71 anni fa, il 26 dicembre 1944. “Suicida”, tecnicamente: dette l’ordine ai suoi artiglieri di bombardare la sua postazione, perché era circondato dai nazisti. “Fire it!” gridò ai suoi e con lui morirono molti nemici. Un gesto eroico, tanto più se a compierlo è un uomo senza diritti civili (nel suo Paese), che ha 29 anni e una moglie, Arlene, che lo aspetta in Ohio.

E’ l’aprile del 2015 quando l’uomo giunto da New York arriva al cippo con passo sbilenco. Ha i capelli bianchi e un cappellino da baseball appena appoggiato sulla testa, come fanno i ragazzini, ma lui forse non lo sa nemmeno. Si chiama James Pratt ed è un professore di economia in pensione. Ha combattuto in Vietnam, ma non ne parla. “Nessuno ama ricordare i giorni passati in guerra”. Neppure suo padre gli ha mai parlato dell’Italia. E ora che non c’è più, James vuole sapere tutto di lui, di Charles Pratt, comandante del reggimento 366, “segregato”, cioè formato solo da uomini di colore. Pratt sr il capo di John Fox. “Per tutta la vita ho ignorato questo gruppo di soldati, che è stato dimenticato e ciò mi ha commosso. Oggi mi impegno per ricordarli” spiega a ilfattoquotidiano.it James, che deve il nome a uno di loro. Ha fatto 6675 chilometri per posare dei fiori dove 70 anni fa persero la vita i compagni del padre, sulle montagne lucchesi. In un pascolo, sul ciglio di una strada, in cima a una collina.

Sommocolonia, paesino della valle del Serchio, che i tedeschi dominavano dalle trincee della Linea Gotica, fatte scavare ai rastrellati sulle vette delle Apuane. Fu quello il teatro di una sanguinosa battaglia combattuta nella notte tra Natale e Santo Stefano del 1944. I nazisti lanciarono un’offensiva massiccia. A Sommocolonia fino a poche ore prima si era celebrato il Natale, con la messa e i canti. John R. Fox era entrato in una cascina (di cui oggi restano solo delle macerie): era salito al secondo piano, da lì poteva comandare a distanza l’artiglieria indicando via radio la posizione dei tedeschi. Dopo oltre 4 ore di combattimento, Fox si trovò circondato. L’unico modo per fermare i nemici ed evitare un massacro dei suoi era far bombardare la sua posizione. E non esitò: ordinò alla compagnia cannonieri di colpire. Il soldato che ricevette l’ordine rimase di sasso. Rifiutò di eseguire il comando: aprire il fuoco avrebbe voluto dire condannare a morte il suo commilitone. Ma le ultime parole di Fox, prima di chiudere la comunicazione, non lasciarono scelta: Fire it!, sono molti più loro di noi: dategli l’inferno! Glielo dettero, il fuoco: Fox diventò un eroe, sua moglie una vedova, fedele e orgogliosa per tutta la vita.

Fu lei a ritirare la Medal of Honor, nel 1997, dalle mani del presidente Bill Clinton. Fu solo allora, dopo 53 anni, che il suo sacrificio in onore della sua patria che gli negava i diritti e della libertà che in Italia era ancora tutta da costruire fu riconosciuto. “Il motto del 366esimo – dice Pratt – era Labour conquers all things (il lavoro conquista ogni cosa). Lavora duro e poi le cose accadono. Io ci credo. Gli afroamericani sono rimasti fuori dalla storia ufficiale, ma negli ultimi anni stanno condividendo sempre più la propria storia col resto del Paese. Molta gente ancora non sa cosa è successo a Selma. Neppure a Sommocolonia, quindi bisogna parlarne e insegnare cosa accadde”.

Prima di partire, James Pratt ha stampato le mappe da Google Earth, ha incrociato le informazioni ottenute con gli avvenimenti descritti nelle lettere, datate 1945, che i sopravvissuti mandavano alle famiglie dei compagni caduti. Per localizzare i punti esatti dove posare i fiori, ha confrontato i paesaggi di oggi con le foto di ieri. Come quella di un corpo senza nome, il logo della Quinta armata cucito sulla spalla, riverso per terra sul ciglio di un tornante. “E’ uno scatto rarissimo. Dopo l’Africa, il governo americano vietò di pubblicare foto dei cadaveri dei soldati, spaventava l’opinione pubblica. Non se ne trovano” spiega il professore in pensione mentre omaggia il soldato senza nome. Un altro mazzo lo lascia fuori Barga, in un campo. “Questi sono per il sergente Lawrence D. Boozer, caduto qui a 21 anni. Li porto per conto dei suoi due nipoti, Lawrence e Sally McClain” pronuncia con una certa solennità. Ad ascoltarlo, un gregge di pecore, la moglie Mildred e il figlio, Charles, stesso nome del nonno, scomparso nel 1989, un anno prima che nascesse. Il vecchio Pratt non era come i neri della 92esima divisione che liberò la Versilia, quelli ritratti da Spike Lee in Miracolo a Sant’Anna, in gran parte analfabeti. Faceva l’avvocato, era istruito come molti suoi compagni. Il reggimento 366 fu un esperimento del governo per capire se anche i neri fossero in grado di combinare qualcosa. Solo nel 366 potevano diventare ufficiali. Comandando altri neri. Mai dei bianchi.