Cultura

Teatro dell’Argine, ‘La terra vista dalla luna’: esilarante, grottesco e commovente

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San Lazzaro di Savena – “Da quassù la terra è bellissima, senza frontiere né confini” (Juri Gagarin)

Luna. E l’altra. “E guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po’” cozza con l’inevitabile leopardiana “Che fai tu, luna in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna”. L’altra faccia della medaglia, quella che vive di luce riflessa, il satellite che gravita nell’orbita altrui. Non certo il Sole, esplosivo, caldo, bruciante. La luna è fredda, piena di crateri, visitata nella sua solitudine soltanto una volta dall’uomo, “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”, e c’è chi mette in dubbio anche quella. Il parallelo Luna – uomo, con le loro fragilità e debolezze è da millenni sviscerato: la luna, più del Sole, che non si può guardare infatti né avvicinarsi (Icaro ne sa qualcosa) e rimane altero e lontano in ogni senso, la sentiamo vicina, ci protegge senza dominarci, sta senza alcuna velleità arrogante di conquista, la osserviamo quando è piena, di lupi mannari e maree e capelli che crescono e figli che nascono, quando è solo uno spicchio, di limone o come bandiera. Infatti Mark Twain diceva che “Ognuno di noi è una luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessun altro”.

La luna è specchio della terra, sorella; da questa biunivocità il Teatro dell’Argine ha messo in piedi (le sfide collettive, multiculturali, piene, sfaccettate, molteplici, numericamente articolate, piacciono alle anime portanti del centro bolognese, Andrea Paolucci, Nicola Bonazzi, Micaela Casalboni) una grande macchina, “La terra vista dalla luna” (riecheggiamenti pasoliniani), con sei autori emiliani (Bonazzi, Azzurra D’Agostino, Patrick Fogli, Milena Magnani, Vincenzo Picone, anche regista, Valerio Varesi) e altrettanti laboratori per cento ragazzi di dieci scuole superiori, che prevede un ritorno nel 2016 con l’apertura di cento laboratori e una restituzione in un unico grande spettacolo nel ’17 con 1000 giovani.

All’Argine piacciono i grandi numeri, le espansioni dove si sente il processo e il calore, dove se ne scovano tutte le diversità dentro un unico grande contenitore che non appiattisce né omologa, un’unica casa accogliente dove poter stare in maniera differente con lo stesso piacere. Sei drammaturghi che hanno scritto partendo da storie di cronaca vera, talmente assurde e grottesche da sembrare inventate. Sulla luna, ci dice l’Ariosto, ci si va a recuperare il senno che le umane vicende ha fatto traballare e vacillare. Ci finì anche Totò. Laika invece ci orbitò vicino. Pensi alla luna e ti appare il volto rugoso, gigione e sereno di Margherita Hack. Eschilo definiva la luna “rana d’oro del cielo”. L’immagine di Melies, con la navicella infilata nell’occhio della luna (preveggente) è la più (ab)usata.

Ed è da qui che attraverso un oblò (ritorna il tormentone di Gianni Togni), potrebbe essere quello di un astronave (dalla quale la Cristoforetti potrebbe scattare fotografie a getto continuo) o di grandi lavatrici gialle (sembrano giganteschi Minion) che tutto frullano al loro interno. Alle storie, folli ma quotidiane, riprese dalla nostra cronaca implosa, fa da contraltare l’intermezzo con i cinque anziani, pinterianamente catastroficamente e apocalitticamente dopo la fine dell’Umanità, con maschere alla Familie Floz (una ricorda Einstein, sua la celebre “Dio non gioca a dadi con l’universo”, un’altra da scimpanzé, al sapore di “2001 Odissea nello spazio”) delicati e poetici, rallentati e teneri, si muovono ognuno con il proprio oggetto-feticcio, nostalgia canaglia (altra hit) delle loro storie di tutti i giorni (nuovamente una hit), della loro gioventù, difficile, pericolosa, turbolenta, instabile, inquieta, traballante, insicura, certamente precaria, ma bellissima, piena, emozionante, viva, energica sulla Terra. La luna, è al contempo chimerica e a portata di mano.

Come un lungo monito ambientalista, come se fosse un trattato sulla felicità umana, ribaltamento in piena regola fin dal titolo che ci impone anche una riflessione sul possibile capovolgimento di quelle realtà che crediamo fisse e scolpite, “La terra vista dalla luna” è un susseguirsi di situazioni grottesche, commoventi o esilaranti che mettono in luce quanto l’uomo si stia impegnando per autodistruggersi (“Miserere”), per non godere del suo tempo e delle bellezze del mondo. Una gustosa miscela attoriale, con l’esperienza di Micaela Calsaboni, materica e materna, messa al servizio di Paride Cicirello, nel venditore di vernici è alienato e esuberantemente represso, di Silvia Lamboglia, frizzante nella vedova allegra, di Giulia Franzaresi di spessore tragicomico nell’episodio del call center, di Gian Marco Pellecchia clown di corsia in un ospedale in zona di guerra. E come, infine, non dare ragione al sommo William: “Folle è l’uomo che parla alla luna. Stolto chi non le presta ascolto”. Dall’Argine la luna si gode sempre meglio.

Visto all’ITC San Lazzaro, Bologna, il 4 dicembre 2015.