Cultura

Beinecke Library di Yale, la ‘stanza’ per un tesoro di carta

La luce è quella di acque profonde, calde, calme, solo appena mobili, colorate come da microrganismi invisibili. Acque amniotiche del profondo. La grande sala completamente priva di finestre è immersa nella luce che proviene dalle pareti: un reticolo di lastre di marmo, di forma ottagonale, che filtrano attraverso il loro spessore quel che riesce a passare dei raggi solari, colorando lo spazio di giallo, verde, grigio e mille altre sfumature. Al centro, una torre fatta di libri domina l’invaso, elevandosi dal pavimento fino al soffitto, dove i suoi piani vetrati vanno letteralmente ad incastrarsi nel reticolo di travi del cassettonato.

Dentro una stanza che protegge un tesoro di carta: la Beinecke Rare Book and Manuscript Library di New Haven è la biblioteca più grande al mondo tra quelle dedicate alla conservazione e alla consultazione di libri e manoscritti rari. Fu donata alla Yale University, nei primi anni Sessanta, dai fratelli Beinecke, industriali ed ex allievi, quando le sale destinate alle collezioni di esemplari rari, alle quali avevano già ampiamente contribuito, della Sterling Memorial Library situata a pochi metri di distanza, erano diventate insufficienti.

Gordon Bunshaft, tra i progettisti di punta di Som (Skidmore, Owings & Merrill), studio con sede centrale a Chicago dal 1936 e ancor oggi operante a scala transnazionale, fu incaricato di disegnare il nuovo contenitore.

L’edificio fu costruito nel Hewitt University Quadrangle, un insieme di isolati destinati ad alcune tra le biblioteche più prestigiose del campus. Tra i preesistenti edifici neoclassici e neogotici separati da viali alberati, nel 1963 fu inaugurata la Beinecke Rare Book and Manuscript Library, un edificio affatto diverso da quelli che lo circondano.

La biblioteca all’esterno si presenta come un prezioso blocco che sembra pieno, come privo di cavità interna, un volume parallelepipedo completamente chiuso, sollevato dal suolo su soli quattro pilastri angolari di forma troncopiramidale.

Il sole durante la giornata gioca con la semplice ma articolata geometria modulare della facciata, disegnando con le ombre delle spezzate continuamente variabili, realizzando così una sorta di partito decorativo mobile e immateriale. Il fronte di accesso prospetta su un piazzale pedonale intagliato da una corte incassata, animata dalla plastica del suolo e dalle sculture di Isamu Noguchi, sulla quale aprono gli uffici dei dipendenti e gli spazi per gli studiosi, connotati da un’atmosfera claustrale che favorisce la concentrazione.

L’ingresso al pubblico dal piazzale è al piano terra vetrato, da cui si può subito salire al mezzanino dove sono esposti, in teche dalla struttura di bronzo, i pezzi più rari delle collezioni, tra cui un esemplare della bibbia di Gutemberg e il misterioso manoscritto detto Voynich.

È qui che il dispositivo luministico predisposto dall’architetto sprigiona tutto il suo effetto, è qui che possono tornare prepotentemente alla mente le trasparenze leggendarie dell’alabastro dell’abbazia di Sant’Antimo, nel territorio di Montalcino, o quelle, che avevano segnato la memoria di Bunshaft nei suoi viaggi, delle vetrate del Portail des Libraires a Rouen, o degli interni di un bagno turco settecentesco nel complesso del Topkapi ad Istanbul.

Le quattro pareti-trave disegnano un telaio dalla tessitura a maglie quadrate in granito, in cui sono inscritti degli ottagoni in marmo del Vermont di tre centimetri di spessore che, filtrando la luce, blocca i raggi ultravioletti dannosi per l’inestimabile contenuto e determina così la speciale atmosfera della grande sala.

La corte incassata è in continuità con il primo livello interrato della biblioteca. A questa stessa quota si trova un ingresso di servizio. Dai sobri interni foderati di scaffali delle biblioteche ottocentesche dell’intorno, attraverso la rete di percorsi ipogei che le collega, un lungo corridoio che sottopassa la strada porta dalla penombra dei compressi spazi di connessione, improvvisamente e sorprendentemente, a cospetto della torre di libri che si eleva nella luce irreale diffusa nello spazio espanso della grande sala disegnata da Bunshaft.

La biblioteca di New Haven, è figlia del “vasto anfiteatro di libri”, una delle più limpide tra le visioni architettoniche di Etienne Louis Boullée, al crepuscolo del secolo dei Lumi; come ne è figlia la Stockholms stadsbibliotek, costruita da Erik Gunnar Asplund negli Venti del Novecento nella capitale svedese. Questi sono cioè edifici che traggono la loro potenza emozionale dal modo di disporre nello spazio quegli stessi oggetti, i libri, loro ragione di esistenza. Queste biblioteche non solamente conservano, rendono organizzabili e consultabili i libri, ma si spingono ben oltre le funzioni d’uso: mettono in atto una laica celebrazione del libro. Per gli architetti che le hanno disegnate, il libro è una sorta di sublimazione del mattone: costruisce la biblioteca, la sostiene, la rende spazio. Allo stesso tempo il libro è protagonista unico dell’interno: presentato come massa, ricorda ad ogni istante al visitatore la quantità di conoscenza che quei milioni e milioni di fogli di carta tramandano.

Gordon Bunshaft, che anni dopo nel 1988 vincerà il Pritzker Prize insieme a Oscar Niemeyer, aveva voluto concepire la biblioteca, per quel che avrebbe dovuto contenere, come una stanza del tesoro protetta da un involucro prezioso.

Edifici del genere, nell’era del digitale assumono ruoli e significati diversi e, forse, più profondi che nel passato.

Le fotografie sono state riprese nel settembre del 2004.

Qui per i disegni.