Cultura

Cosenza, Premio Sila ’49: Stefano Rodotà e l’era dello smartphone

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Cosenza, Premio Sila ’49: tra i più antichi premi letterari voluto da Giacomo Mancini, lungimirante Leone socialista intriso di meridionalismo oggi rinato grazie ad Andrea Pisani Massamormile, banchiere illuminato, e all’impulso che solo le donne di spessore sanno dare. È il caso di Ermanna Carci Greco, figlia di Vittoria Vocaturo Mancini, Presidente del Cda della Fondazione Premio Sila ’49, la prima donna in Calabria a governare la cultura regionale quando a Cosenza apriva la Libreria Popolare Feltrinelli e, riemersi dal mare, dopo il restauro fiorentino tornavano a Reggio i Bronzi di Riace.

Sold out intergenerazionale e mitteleuropeo per il ritorno a casa di Stefano Rodotà a Palazzo Arnone, nella sala che fu quella delle udienze del vecchio Tribunale oggi sede della Galleria nazionale della Soprintendenza BSAE della Calabria. Poca politica presente, da occasione persa: non si è mai troppo grandi per imparare.

Rodotà e quell’orgoglio misto all’emozione di ricevere un premio nella sua città natale, quella di Telesio. È la sentimentalità dei luoghi. Che una città non è solo ponti, strade, quartieri, è anche ricchezza immateriale, volti, corpi, persone che diventano marcatori d’identità e la caratterizzano. “Premio non alla carriera ma alla persona” dirà Enzo Paolini, tra i promotori del Sila cui toccherà l’onere d’introdurre il figlio/padre illustre di questa comunità, in una sala dove si respira meridionalismo dall’intelligencija catanzarese di Piero Bevilacqua e Carmine Donzelli, raffinato editore, a quella franco-cosentina di Nuccio Ordine.

Una lezione sul nostro “essere in rete che accomuna generazioni lontane tra loro”, la riflessione d’un “figlio dell’era dei comizi” sulla contemporaneità da smartphone capace di trasferirci in uno spazio senza confini, per “relazioni personali e sociali non più condizionate da spazio e tempo”. Lo smartphone, ovvero il telefono intelligente che marca una differenza tra la nostra epoca e quella precedente giacché prima l’intelligenza era esclusiva degli esseri umani oggi è condivisa con oggetti che popolano la nostra quotidianità. Dominio dell’intelligenza artificiale ovvero costruzione progressiva di sistemi capaci d’imparare, con un’intelligenza propria come lo smartphone dotato, malgrado il margine d’autonomia lasciato alla persona, d’attitudine all’apprendimento. Un oggetto che ha invaso le nostre vite, emblematico d’una simbiosi uomo/macchina, finanche d’una sua sopraffazione, quasi che ci fosse un’inversione di ruoli. Una “protesi della persona” giacché “il nostro è un corpo eternamente connesso e le relazioni sociali sono affidate alle opportunità offerte dalla tecnologia”, in una società che si avvia verso Internet 3.0 dove le macchine dialogano tra loro.

Una “frontiera allettante per la vita quotidiana o la partecipazione politica e sociale”. Eppure, il vivere in rete produce informazioni personali che raccolte rischiano di camuffare l’identità individuale: “viviamo in una realtà aumentata dalla presenza di dispositivi, non c’è solo una realtà esterna aumentata, c’è anche una persona aumentata”. Il tema per Rodotà è quello dell’identità nel “passaggio da Cartesio a Google” laddove ci possono essere rappresentazioni dell’identità che non corrispondono al reale perché ognuno di noi “è quel che Google dice di noi”. L’identità legata al nostro essere in rete, ad un profilo capace di falsarla per l’effetto dirompente della tecnologia, se solo si pensa all’abolizione della tradizionale separazione tra spazio di lavoro e d’abitazione che sa di “conquista d’un sentimento d’intimità perduto” giacché la persona è continuamente connessa e “il ritrarsi è cancellato”. Un bel tema, di questi tempi, quello del confine tra privacy, diritto all’intimità e diritto alla sicurezza. Negatività dei tempi moderni? “Bisogna preoccuparsi saggiamente”, dirà sul finire dall’alto della sua austerità un tranquillizzante Rodotà.

Un’ora di riflessione lucida, avvincente cui seguirà la relazionalità con domande dal pubblico, a partire da un arguto Massimo Veltri. Una lezione di stile sulla modernità e un invito sotteso a rimanere umani. Una lectio d’umanità consegnata nelle parole che rimbombano nella sala gremita e nelle pagine del suo ultimo libro, Diritto d’amore, appena uscito per la meridionalissima Laterza che più d’uno ha in mano. Quell’amore che per il diritto nel nostro paese non esiste, ma che è diritto di tutti, al di là delle diversità.

Foto di Francesco Farina