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Tap, la società del gasdotto già in rosso per 100 milioni. Tanti i rischi all’orizzonte

Il bilancio 2014 di Trans Adriatic Pipeline AG evidenzia potenziali problemi connessi a permessi, motivi politici ed eventuali sfide geologiche inaspettate che, in caso di ritardi, potrebbero indurre gli azionisti a concludere che il progetto non sia realizzabile

Entro il 16 maggio 2016 dovranno cominciare i lavori per la realizzazione del Tap, il TransAdriatic Pipeline, metanodotto che dalla riserva di Shah Deniz II in Azerbaijan porterà il gas fino al Comune di Melendugno, in provincia di Lecce. Un’opera colossale: 878 chilometri, tre Paesi toccati ma ancora tanti passaggi burocratici da completare prima dell’apertura dei cantieri. L’investimento sul progetto è talmente importante che la Banca europea per gli investimenti, l’istituto che sostiene le opere considerate più rilevanti per lo sviluppo dell’Eurozona, ha iniziato a discutere un prestito da 2 miliardi di euro: il più alto nella sua storia. L’Italia detiene il 16% del capitale della banca, il cui denaro proviene dagli Stati membri Ue e dalla Commissione europea. Il bilancio del Tap per il 2014, che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare, mostra però qualche crepa nel mega progetto.

E il punto non è solo il rosso, quasi 100 milioni di euro a fine 2014, com’è normale nel caso di un cantiere. Il tempo è un nemico per la Trans Adriatic Pipeline AG, compagnia che realizzerà la Tap, con sede a Baar (Svizzera) e i cui i maggiori azionisti sono la British Petroleum (20%), Socar (società di Stato dell’Azerbaijan, 20%), Statoil (20%), Fluxys (19%), Enagás (16%) e Axpo (5%). Lo scrive nero su bianco la società nelle note ai rendiconti finanziari del 2013 e del 2014, dove si sottolinea che “il progetto è soggetto ad una serie di rischi che possono variare nel corso del tempo”, inclusi i rischi “connessi ai permessi, a motivi politici o tecnici che possono comportare ritardi nella tabella di marcia del progetto o eccedenze di spesa che potrebbero indurre gli azionisti a concludere che il progetto non sia realizzabile”. Un’eventualità che potrebbe portare i soci a “decidere di liquidare la società. Di conseguenza sarebbe necessario cancellare i costi capitalizzati e la società potrebbe trovarsi sovraindebitata“.

La questione non è secondaria, come hanno notato anche i revisori di Deloitte, in un richiamo al bilancio. Dove si sottolinea che i costi capitalizzati (cioè quelle spese pluriennali che non vengono inserite tra le uscite del conto economico, bensì spalmate su più esercizi) da Trans Adriatic Pipeline AG al 31 dicembre 2014 ammontavano a oltre 344 milioni di franchi, circa 286 milioni di euro secondo il cambio dell’epoca. Il rischio, quindi, è che il buco diventi voragine, se non si rispettano le scadenze. Le fasi del cronoprogramma prevedono tra il resto che nel 2020 il Consorzio Shah Deniz, detentore delle licenze per lo sfruttamento del gas, cominci a vendere ai Paesi europei. Nel mezzo, oltre alle approvazioni ancora da venire, notano i revisori, c’è il fatto che la costruzione del metanodotto “tocca anche regioni con situazioni politiche instabili. Inoltre il progetto potrebbe dover affrontare sfide geologiche inaspettate”.

La società mette nero su bianco che “i rischi sono monitorati costantemente dal management e dagli azionisti. Inoltre la loro valutazione è formalmente analizzata ogni anno dal consiglio di amministrazione” e al 31 dicembre 2012 cda e manager “non prevedono e non sono a conoscenza di altri importanti ostacoli al progetto e ritengono che i costi capitalizzati rappresentino un beneficio economico per la società”. Concetto recepito dai revisori e ribadito a voce dalla stessa società. “Si tratta di normale rischio d’impresa”, commentano dall’ufficio stampa, secondo il quale non c’è alcun pericolo di sovraindebitamento dovuto ai ritardi. “Il dato importante è che la commissione di Via (Valutazione d’impatto ambientale, ndr) nel settembre 2014 ha già dato l’approvazione al progetto”, aggiungono. Nel decreto ministeriale che ha autorizzato l’opera, però, ci sono 58 “prescrizioni”, ossia doveri che la società deve assolvere per poter concludere l’opera. Di questi, circa una quarantina (dato dell’ufficio stampa) riguardano l’”ante operam”, la fase prima dell’apertura dei cantieri. Solo tre di queste sono state completate e approvate dal ministero dell’Ambiente.

Se dal dicastero c’è tutto l’interesse a far procedere spedito il progetto (vista anche la pressione europea sull’opera), dal Comune e dalla Regione, invece, c’è una forte opposizione per le conseguenze ambientali che potrebbe avere il metanodotto sulle coste pugliesi. Le due istituzioni locali vogliono che la loro voce sia tenuta in considerazione: nella delibera regionale 1949 del 3 novembre si elencano le 39 prescrizioni in cui, sola o con l’Arpa, la Regione dovrà dare il suo parere. E le carte da presentare ancora non sono sufficienti, per gli enti locali: “Per ora non abbiamo nemmeno visto nemmeno un progetto esecutivo completo”, aggiunge il sindaco di Melendugno Marco Potì. La società tira dritto, forte di quanto dice l’approvazione all’ottemperanza A29: “La verifica di ottemperanza [sarà] attivata separatamente per i lotti individuati”. Quindi nessun progetto esecutivo unico, ma tanti quanti sono i lotti coinvolti. Il rischio concreto è che si apra una guerra di carte bollate tra enti locali e ministero su chi deve esprimere l’ultimo parere sull’opera.

Intanto, si legge ancora nel bilancio, il progetto “dipende dai futuri finanziamenti degli azionisti” che l’anno scorso hanno partecipato a ben tre ricapitalizzazioni che hanno portato il capitale a 274mila franchi (circa 250mila euro). Sullo sfondo ci sono le indiscrezioni che si rincorrono da mesi sull’uscita di Statoil, il gruppo norvegese del petrolio, che detiene un quinto delle azioni. In ottobre l’agenzia Reuters ha dato notizia della vendita della quota alla malese Petronas. “Non commentiamo le speculazioni. In generale, ogni cambiamento nel nostro portafoglio sarà comunicato a tempo debito”, replica Statoil. Di sicuro c’è che Total ef E.on, che detenevano il 19% in due, sono uscite lo scorso anno. E a fine settembre l’amministratore delegato di Snam Carlo Malacarne ha dichiarato a Il Sole 24 Ore: “Entro fine anno molto probabilmente ci sarà l’ufficializzazione della vendita del 20%. Noi parteciperemo sicuramente, anche se non siamo ancora entrati nella fase di due diligence”. La partita è ancora aperta.