Cultura

‘Barbonaggio teatrale’, non chiamateli attori amatoriali

La strada è feroce. La strada non perdona. Ti mangia, ti sputa fuori, ti morde con quel suo nero dei marciapiedi, l’appuntito delle scritte sui muri, l’intonato corroso e sbertucciato come mezze bestemmie tra i denti in lingue lontane e incomprensibili. La strada non è per tutti. La strada non è per tutti gli attori. Lo sanno bene i “barboni teatrali”, attori o piccoli gruppi che autonomamente, spontaneamente, si sono uniti e collegati al progetto di Ippolito Chiarello, attore salentino che si divide tra palcoscenico e set cinematografici, nato per caso, a livello provocatorio ed individuale e adesso trasformatosi in vero e proprio movimento, bandiera, icona di un recupero di un certo modo di rapportarsi alla scena, al testo e soprattutto al pubblico.

Sei anni fa Chiarello, appurate le difficoltà nel far “girare” e distribuire un suo spettacolo, tentò la carta della piazza, un piccolo sgabello, come stare nella londinese Hyde Park, raccontando il suo monologo diviso in scene, acquistabili a pochi euro l’una, come un juke box. Oltre trecento sono state le repliche di ‘Fanculo pensiero’, ogni sera mettendosi in agibilità e raccogliendo più della cosiddetta “minima”. La reunion del Barbonaggio Teatrale, diventato nel tempo un modo per ampliare conoscenze e riflettere sul mestiere dell’attore, un ritrovarsi, un accumulare energie per non sentirsi soli, è arrivato alla quinta edizione. Oltre cinquanta artisti l’anno decidono, a fine ottobre, per una giornata, per una serata, di invadere pacificamente il centro di Lecce, Piazza Sant’Oronzo, i portici, le strade intorno all’anfiteatro, a sfiorare l’obelisco fallico, a toccare l’ulivo dedicato a Papa Wojtyla, tutt’attorno alle strutture d’architettura fascista che guardano e accerchiano il mosaico con la lupa che allatta i gemelli.

Il gruppo teatrale di Ippolito si chiama “Nasca”, che nel dialetto di questa parte di Puglia assolata e bianca vuol dire “nasone”. Appunto il suo, con autoironia. Ma nasca è anche declinazione esortativa del verbo nascere. Tutto sta qui, tra la tangibilità della persona, il guardarsi nelle proprie diversità, e l’entusiasmo verso le novità. La sede del Barbonaggio, ed anche quella di Nasca, è lo spazio Scipione Ammirato nel quale gli attori, arrivati da tutta Italia, si conoscono, si preparano e poi, in fila indiana, raggiungono le proprie postazioni nel centro cittadino. L’Ammirato, finanziato con 50.000 euro l’anno dalla fondazione canadese Musagetes (praticamente i proprietari della Blackberry) è una masseria in città che vuole “provocare trasformazioni nel territorio” (ammiratoculturehouse.org), per questo è una casa sempre aperta per artisti provenienti da ogni continente, è un modo di agire che non deve forsennatamente e necessariamente portare alla produzione ad ogni costo, per “lavorare con la porta accanto per arrivare al mondo intero”.

Ognuno con il suo trucco, i suoi alambicchi, le sue facce dipinte, il proprio cubo di legno da portare in spalla, un po’ croce, un po’ vittoria. “Il Barbonaggio teatrale è un modo per poter lavorare tutti i giorni. Il vero pubblico c’è, esiste, basta incontrarlo. La gente per strada mi ha dimostrato che è pronta a seguirti”: ti piazzi in un angolo, sali sopra il tuo scranno improvvisato che ti fa immediatamente gigante e cominci la tua storia, divisa in tanti piccoli pezzi e stralci comprabili con poco esborso ma con grande soddisfazione.

Niente a che vedere con lo spettacolo “a cappello”, la differenza è essenziale perché qui non si tratta di esibirsi e poi attendere l’obolo o la generosità dei passanti, ma il gioco viene ribaltato, il pubblico chiede, compra, paga una parte, ascolta, entra, se l’attore riesce ad incuriosire, nel racconto con la voglia di sentirlo fino in fondo. Doppia difficoltà: devi essere capace di attirare le persone e poi di non farle scappar via. “Inventarsi nuovi luoghi per fare teatro”. Qui non è il pubblico che va a teatro, ma i teatranti che scendono tra i vicoli e se lo vanno a prendere, uno ad uno. “Sei in una piazza con migliaia di persone ma, paradossalmente, recuperi quell’intimità che a teatro si è persa”.

Ci sono ragazze e ragazzi da Ancona e Matera, Brindisi e Bari, da Torino e Roma, Caserta e Siena, non chiamateli amatoriali, non chiamateli dilettanti. “In teatro le parole le reciti, in strada le dici”. In strada non esistono spettatori, ci sono soltanto passanti, la trasformazione è in mano alla potenza della voce, al carisma del corpo dell’attore nel catturare l’istante, nel fermare il momento, nel rendere l’attimo unico. “Nasce una relazione affettiva con i singoli spettatori che si fermano ad ascoltarti, ci guardiamo finalmente negli occhi”. E’ un grande happening colorato, quasi un flash mob collettivo. Le voci cominciano ad alzarsi, ognuno dalla sua torre incerta e instabile, agitandosi, i passanti intimiditi, impacciati, divertiti, presi di sorpresa. Gli spettatori sono api che snocciolano i loro passi di fiore in fiore, sbocconcellando frasi e storie, si muovono a smangiucchiare testi. Gianluca Preite si muove disinvolto e sicuro di sé, Vittorio Continelli, dal Teatro Minimo, affonda nel mito greco appoggiato ad un lampione, Chiara Provenzano in nero arriva fino in fondo, fino alle lacrime, Daniele Vagnozzi nell’oscillare tra italiano e lo spigoloso marchigiano, tra prosa e canzone, Simone Campana affabula, indica, arrota la lingua. “Siamo nudi in strada”, dicono. Hanno soltanto una coperta fatta di cielo e parole. Chiamalo infinito, se vuoi.