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Londra. Meno welfare per stranieri, più poteri a Westminster e flessibilità: le condizioni di Cameron per restare in Ue

Il premier britannico ha inviato al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk una lettera contenente le richieste di Downing Street a Bruxelles per scongiurare la Brexit, l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea

Fra le diplomazie straniere, nelle ambasciate londinesi, si ridacchia ma non senza una certa preoccupazione malcelata. Perché molti ritengono che le richieste all’Unione europea del governo britannico conservatore guidato da David Cameron siano “fra l’irrealizzabile e l’impossibile”. I partner comunitari del Regno Unito, insomma, stanno a guardare. E il premier Tory negli ultimi giorni ha alzato la voce, dicendo che sì, lui vorrebbe scongiurare la ‘Brexit’ (l’uscita del Regno Unito dall’Ue). Ma anche sottolineando che, se Bruxelles non dovesse prendere in considerazione le richieste sue “e dell’elettorato”, forse potrebbe anche iniziare a pensare di battersi per dire “addio” al recinto comunitario.

Per capire la complessa vicenda della rinegoziazione fra Londra e l’Ue, tuttavia, bisogna partire da tutto quello che non c’è nelle domande di Cameron rivolte con una lettera al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, missiva recapitata martedì 10 novembre e subito accettata dal destinatario. E il riassunto di quello che manca nelle volontà di Londra è stato subito fatto dall’euroscettico Nigel Farage, leader dell’Ukip, vincitore nel Regno Unito alle elezioni europee del maggio del 2014 e alleato del Movimento Cinque Stelle all’europarlamento. Farage, etichettando le pretese di Cameron come “non sostanziali”, lo ha detto chiaramente. “Non c’è alcuna promessa di ridare la supremazia al nostro parlamento. Non c’è niente sul porre fine alla libertà di movimento delle persone. E non c’è alcun tentativo di ridurre l’enorme contributo britannico al budget europeo”. Che poi è quello che nei 28 paesi membri vogliono ora in molti, euroscettici e meno euroscettici.

Il punto del contendere, comunque, è chiaro a molti. Fra le poche richieste messe nero su bianco, una risalta sulle altre, quella di limitare il welfare ai cittadini comunitari residenti nel Regno Unito per almeno quattro anni dal loro primo arrivo al di qua della Manica. Sulla stampa, italiana e non solo, qualche mese fa era arrivato l’allarme relativo alla presunta volontà del Regno Unito di limitare gli aiuti di Stato “agli italiani”. In realtà lo spauracchio del governo e dei britannici è in genere rappresentato dai cittadini europei provenienti dai Paesi dell’Est, quelli che, statisticamente, fanno più richiesta di ‘benefit’ di Stato una volta arrivati in Gran Bretagna.

Quella di Cameron non è una crociata, comunque, contro singole nazioni, ma piuttosto è la volontà di rassicurare un’opinione pubblica spesso spaventata dai tabloid di destra che raccontano storie, vere o a volte un po’ ‘pompate’, di ‘immigrati’ europei che arrivano a Londra, a Manchester o a Liverpool e nelle altre città solamente per avere l’aiuto dalla collettività sotto forma di assegni di disoccupazione, sanità pubblica quasi completamente gratuita, aiuti per l’affitto e sgravi fiscali per famiglie numerose. Il fatto che gli immigrati spesso apportino benessere nel Regno Unito viene tuttavia sottolineato da molti altri soggetti, imprenditori riuniti nella Cbi (la Confindustria britannica) compresi. Eppure quello che interessa ora a Cameron è mostrare ai sudditi di sua maestà, in vista del referendum promesso dal suo governo e che dovrebbe tenersi entro il 2017, forse già nell’autunno del 2016, che il Regno Unito deve servire prima di tutto ai britannici.

La consultazione, del resto, fu promessa dal governo conservatore soprattutto come reazione al successo del movimento dello United Kingdom Independence Party di Farage, che alle europee dello scorso anno prese il 26,6% dei voti (il risultato migliore) assicurandosi ben 24 europarlamentari. L’antieuropeismo di Farage è assolutamente innegabile ed è per questo che il partito conservatore, che dal maggio di quest’anno governa in solitario senza alcuna coalizione, ha spesso seguito l’Ukip sul suo stesso terreno, arrivando appunto a promettere un referendum che potrà essere annunciato e indetto solamente alla fine dell’attuale rinegoziazione con Bruxelles. Una contrattazione che, comunque, si svolge anche su altri punti, non c’è solo la questione del welfare che verrebbe ridotto e tagliato come deterrente a una ulteriore immigrazione di massa, dopo quella già registrata negli ultimi anni. Una pretesa subito bollata dalla Commissione europea come “molto problematica”, ma appunto le linee di discussione aperte sono anche altre.

Innanzi tutto, si chiede di ridare potere al Parlamento nazionale, anche se questo aprirebbe alla possibilità di una generica capacità di veto da parte di ogni Paese membro su qualsiasi materia, una cosa che poi si scontrerebbe quasi quotidianamente – prevedono le diplomazie straniere – con le sentenze della Corte di giustizia europea. Poi, ancora, Londra chiede la tutela dei Paesi che non fanno parte dell’Eurozona, un gruppo del quale il Regno Unito è il principale esponente. Cameron vorrebbe una tutela dello status di chi ha deciso di non far parte della moneta unica, una cosa molto più concreta che simbolica, in quanto gran parte delle decisioni di Bruxelles sono appunto tarate su chi condivide le stesse banconote nei portafogli. Inoltre, si chiede nella lettera che gli stati ‘non-euro’ siano esentati dal pagare le politiche monetarie e finanziarie dei membri dell’eurozona.

Ancora, Downing Street vuole più “flessibilità” all’interno del mercato unico: pur sottolineando che nel dettaglio questi punti verranno specificati nella rinegoziazione vera e propria delle prossime settimane, Cameron ha fatto sapere a Tusk che serve “un mercato digitale unico”, riferendosi a un sistema di telecomunicazioni più uniformato, che l’Europa avrebbe bisogno di una “unione dei mercati”, per aiutare finanza e impresa, e soprattutto di norme meno stringenti sul business. Dai paradossi della misura imposta sulle banane da vendere (tormentone sui tabloid britannici) alle limitazioni del settore dei servizi pubblici e privati, che deve rispettare parametri ben definiti, Londra ritiene che “il peso dell’attuale regolamentazione (europea, ndr) sia ancora troppo alto”.

Secondo il premier britannico, quindi, si dovrà avere “l’Europa dove necessario ma l’ambizione nazionale dove possibile”: che molti di questi punti siano condivisi ormai anche dai partiti di governo nelle capitali europee è cosa nota, ma chi osserva queste rinegoziazioni al momento è scettico, appunto, soprattutto per la questione del welfare e per il ruolo, da ridefinire, dei parlamenti nazionali. Cameron intanto ha lanciato la sua sfida, drammatizzando il dibattito negli ultimi giorni e lanciando un messaggio da Londra, dove è intervenuto al think tank di Chatham House, uno dei centri di studi internazionali più famosi al mondo. “Questa non è una mission impossible”, ha sottolineato il premier, cercando di rassicurare l’opinione pubblica interna. Se nelle ambasciate straniere e nei palazzi di governo dei partner europei si ridacchia, insomma, così come ci si trattiene dall’esprimere un divertito imbarazzo anche a Bruxelles, il premier conservatore vuole andare diritto per la sua strada.