Musica

‘Fammi una domanda di riserva’, fotogrammi d’autore: il magico mondo di Paolo Conte

fammi una domanda di riserva Paolo ContePaolo Conte si esprime anzitutto in musica, ma anche attraverso i silenzi. I suoi concerti sono espressioni cinematografiche e si ha la sensazione di entrare davvero  in un altra epoca tra il fascino sognante felliniano e la letteratura di viaggio, sotto forma di diari o impressioni. Al pari di un pittore impressionista, egli nel silenzio osserva “nello specchio di un caffè” i volti riflessi, le vite “al contrario” e si ha quasi la sensazione di passeggiare con lui mentre il suo sguardo arguto si posa sul particolare meno evidente, per imprimerlo nella mente come una fotografia da dipingere poi in un testo

C’è in questo autore un insieme magico che lo rende unico nel panorama mondiale. Un’icona affascinante nella quale si confondono jazz, swing, milonghe, paesaggi, vino e cibo: “Sono uno da piatti semplici, da bollito. O merluzzo. O minestrone. La nouvelle cuisine non fa per me“. Se l’autunno potesse essere raccontato in musica, bisogna attingere alle note contiane con  parole distillate come foglie che cadono e che proprio nel lento momento del cadere esprimono quella poesia piena di immagini che rimandano a piccoli mondi antichi con personaggi  danzanti sospesi tra cielo e terra. Massimo Cotto,  attraverso il libro “Fammi una domanda di riserva” appena pubblicato da Mondadori,  ci conduce piacevolmente nell’universo di Paolo Conte composto di dettagli che sono poi i microcosmi tipici del suo territorio di appartenenza; quel Piemonte pieno di metafore e punto di partenza per salpare verso terre lontane o immaginate. “Il mare delle mie canzoni è un mare antico, fuori dal tempo e dallo spazio. Anche quello di Genova per noi. Non è solo un mare geografico, è anche di evocazione”. E ogni canzone di Conte è appunto un viaggio; non importa se da soli o in compagnia ma la voce narrante si fonde con la musica per prendere un treno o semplicemente attraversare un ponte tra la nebbia che nasconde gli elementi urbani per avvicinarli a quelli disegnati dalla fantasia.

Il libro scorre come un limpido fiume piemontese e ci regala molte parte inedite dell’avvocato; dai suoi gusti alimentari al suo carattere che si esprime, appunto, attraverso i silenzi. Le pagine sono costituite da frammenti di un discorso musicato, poiché le poche parole, diverse dai testi che gli appassionati conoscono a memoria, sono parole simili a sceneggiature o suggestioni capaci di creare dipinti o paesaggi, “le mie canzoni sono come fotogrammi all’inizio di un film, quando tutto deve ancora succedere“. Nell’introduzione al volume Massimo Cotto sottolinea che “un Paolo Conte nasce ogni cent’anni e bisogna avere acne il culo di esserci quando c’è lui. Uno di quelli che preferisce togliersi invece di mostrarsi. Paolo è profeta della sottrazione , un mago introverso che nasconde il cilindro e persino le carte“. Del resto la sua passione per l’enigmistica rende ogni suo “passaggio” pieno di piacevole mistero per cui ciascuno può  vederci il proprio “percorso” in quel Rebus che è la vita. Cotto afferma che questo libro è omaggio al Conte della canzone e dunque ha prima allineato i ricordi e poi mescolato le parole. E questa ultima immagine è rafforzata dall’immediata descrizione che appare nel risvolto di copertina secondo cui “si può mettere in un cappello tutte le sue frasi e poi estrarle a una a una in disordine sparso. Oppure rovesciarsi il contenuto sulla testa  in un meraviglioso, fantasmagorico, unico spettacolo di arte varia“. E allora, leggendo i frammenti sparsi di Conte è evidente l’accostamento a Fellini quando l’elegante chansonnier si illude che il testo de L’orchestrina non sarebbe dispiaciuto al mondo del grande regista e questo è ancora più credibile, leggendo tra le righe:

“arriva un tipo di Milano 

tutto nottabulo languor
mette la mancia sopra il piano
e chiede che si suoni ancora ancor
si suona si suona ancora orchestrina 

che poi vedrai che se ne andrà ” .

“Pezzi” di canzoni che sembrano copioni, poche frasi che raccontano una storia con personaggi che sembrano usciti davvero da un cilindro capace di ogni incantesimo. Una polvere di palcoscenico si avverte costantemente tra le parole con una teatralità di altri tempi e  pianoforti a coda preziosi come i periodi d’oro del jazz che diveniva leggenda. E “quelle di Paolo” aggiunge Cotto “sono canzoni da vedere, geometrie dove il legno lascia il posto al vetro, con i suoi riflessi e le sue trasparenze, archeologie del jazz, passione per la musica di ruggine e per le parole profumate”. Questo libro ha un pregio: permette di ascoltare Conte, non attraverso le sua canzoni, ma con una serie di riflessioni che ci fanno a volte capire dove e come sono nati i suoi capolavori. C’è tutto il sapore del vino piemontese di ottime annate, frutto di una paesaggio scolpito dal paziente lavoro umano, il paesaggio del Diavolo Rosso, rosso appunto come il vino che riscalda, quello che avvolge e che risveglia i sensi, assaporandolo lentamente. E’ un libro questo da assaporare lentamente, ascoltando in sottofondo la musica del Maestro che è nell’anima e che ad ogni ascolto ci regala un nuovo “concerto”. Conte è un artista sensoriale e di eccezionale valore universale e ogni sua interpretazione è da manuale: basta una pausa, una parola più allungata o una semplice smorfia mentre il suo “Steinway americano 1925” spande suoni magici dalla tastiera…”un giorno, durante una lezione di diritto all’università mi annoiavo. Presi un foglio di carta e cominciai a scrivere musica“.

E così, da una lezione noiosa è nato un vero Maestro