Cinema

Da guerrigliero a scrittore fino alla Palma d’Oro, la storia di Antonythasan Jesuthasan: “A Parigi è molto forte l’’islamofobia’”

"La vicenda raccontata in Dheepan è vera al 50%. Reale per tutto quello che ho passato tra la guerriglia, la fuga dallo Sri Lanka con un passaporto falso, i lavori alla giornata nelle periferie francesi. Diversa da quella del film è invece la visione che ho della vita”, spiega lo scrittore/attore a FQMagazine

Da guerrigliero Tamil a scrittore sotto lo pseudonimo di Shobasakthi, fino al personaggio cinematografico di Dheepan. Sono le mille facce di Antonythasan Jesuthasan, 48 anni, da oltre vent’anni con una nuova vita in Francia dove ha vissuto facendo i lavori più umili, fino alla recente carriera letteraria di romanziere, e alla Palma d’Oro al Festival di Cannes 2015 proprio per aver interpretato se stesso in un film spettacolare e violento come Dheepan, in sala in Italia il 22 ottobre. “La storia raccontata nel film è vera al 50%. Reale per tutto quello che ho passato tra la guerriglia, la fuga dallo Sri Lanka con un passaporto falso, i lavori alla giornata nelle periferie francesi. Diversa da quella del film è invece la visione che ho della vita”, spiega al FQMagazine Antonythasan Jesuthasan dal Festival dei Diritti Umani che si sta svolgendo a Lugano in questi giorni.

A 16 anni Antonythasan è ragazzo soldato per le Tigri di liberazione del Tamil Eelam. Imbraccia mitragliette, si nasconde nella giungla, attacca le truppe dell’esercito regolare dello Sri Lanka contro il quale dal 1983 i separatisti armati dell’LTTE conducono una resistenza armata durata fino al 2009. Il primi due/tre anni sono un periodo di terrore, di spietati rastrellamenti del governo centrale cingalese che sequestra ed esegue condanne a morte sui dissidenti secessionisti del nord-est. Una violenza che Jesuthasan racconterà in uno dei suoi libri di successo in Francia, Traitor. Già, perché nel 1987 con l’accordo indiano-cingalese per il cessate il fuoco, l’allora ventenne Antonythasan lascia le Tigri per disaccordo politico, ma allo stesso tempo il governo di Colombo lo arresta in quanto ex terrorista. “Quando mi sono unito al LTTE si trattava di un piccolo movimento di guerriglia che seguiva un’ideologia socialista e voleva aiutare i poveri Tamil. Ero molto ingenuo, così ho creduto a tutto quello che sentivo. Ma dopo l’86, l’LTTE si è trasformato in un movimento fascista”.

L’ex guerrigliero una vita tranquilla è condannato a non averla, almeno sull’isola di Ceylon. Scappa ad Hong Kong, finisce come rifugiato in Thailandia e finalmente, sulla falsariga di quello che accade nel film diretto da Jacques Audiard, ottiene asilo politico in Francia. Inizia la trafila della riempitura di scaffali, di lavoretti da cameriere, perfino di facchino ad Eurodisney. Poi all’improvviso quando la realtà supera la fantasia il suo romanzo Gorilla nel 2001, una sorta di biopic di se stesso come bambino soldato nelle giungla dello Sri Lanka, ottiene un discreto successo e viene tradotto in inglese. Qui inizia la nuova vita di Antonythasan Jesuthasan, lontano dalla morte, ma sempre con la memoria in bilico sulla tragedia del proprio passato.

“Dheepan non è documentario sulla mia vita, ricordiamolo – continua l’attore/scrittore Tamil – semmai mostra come lo straniero viva la quotidianità nelle periferie occidentali con estrema difficoltà”. Ed è proprio nel trapasso drammaturgico, nella rappresentazione fittizia di un dato reale che il regista Audiard e la produzione del film si sono presi la loro dose di critiche dagli abitanti della banlieue di Poissy, 25 chilometri dal centro di Parigi, dove il film è stato girato: “Qui non sparano un colpo di pistola da più di 20 anni”, hanno spiegato sbigottiti gli abitanti del quartiere ai diversi media francesi. “Però ci sono molti altri posti in Francia dove si vivono certi disagi e problematiche come si vedono nel film”, ha specificato l’attore. “Ma soprattutto i problemi di integrazione esistono in ogni grande città del mondo: a Parigi come a Londra, a Toronto come a Colombo. Di base il grande dramma per chi viene catapultato lì, lontano dalle guerre o dal pericolo di morirei di fame, è che non c’è lavoro. Che cosa si va a fare? Solo lavoretti illegali, come lo spaccio di droga. Io sostengo comunque che come è illegale vendere droga, altrettanto illegale è che le istituzioni pubbliche non facciano nulla perché il lavoro si crei per tutti”.

Non basta aver scritto diversi libri e averli presentati in mezzo mondo. Non è più sufficiente nemmeno vincere una Palma d’Oro a Cannes. “Nei paesi occidentali verso di me c’è sempre un problema grosso. Non politico, ma somatico, di colore della pelle. Quando sono stato chiamato in Canada per presentare il film mi hanno fermato all’aeroporto per controlli antiterrorismo. Ma la stessa cosa è successa qualche giorno fa qui a Lugano: decine di persone che scendevano dall’aereo e solo io sono stato fermato e trattenuto per ore”. Vivendo a Parigi c’è però un’altra importante discriminante razziale che Antonythasan Jesuthasan cerca di sottolineare: “A Parigi è molto forte l’ “islamofobia”. Chiamarsi Mohammed o Mustafà oggi nelle periferie della capitale francese significa automaticamente non trovare un posto di lavoro”.

Infine, nonostante i lutti in famiglia e la morte delle persone più care provocate dall’oppressione governativa cingalese, Jesuthasan ritiene che la guerra sia stata un errore: “Attenzione, quella con le armi lo è stata e non andava fatta. La guerra politica invece bisogna continuare a farla, ce n’è ancora molto bisogno. Oggi viviamo un difficile periodo di riconciliazione in Sri Lanka, ma il governo dovrebbe concederci gli stessi diritti che concede ai cingalesi. A noi di etnia tamil come alle altre minoranza del mio paese. Avremmo molto bisogno di aiuto soprattutto da parte di intellettuali, politici progressisti e artisti cingalesi. Abbiamo bisogno di quella sponda, che quelle persone premano sul governo centrale per cambiare le cose”. Intanto è pronto un nuovo libro da dare alle stampe. S’intitola Box: “Era una parola conosciuta durante la guerra Tamil. Veniva usata quando i militari del governo rinchiudevano in un angolo senza sbocchi le persone catturate, poi facevano uscire i funzionari Onu, le ONG, la Croce Rossa, e attaccavano i prigionieri rimasti. Oggi lo Sri Lanka in sé è diventato un enorme box per il popolo tamil”.