Società

Calcio femminile, gender gap? Siamo tutte giocatrici

Sono incappata, un po’ per caso, nella realtà del calcio femminile, a mio avviso metafora della realtà.

Ma partiamo con l’immagine più bella: il gruppo delle giocatrici unite e orgogliose dopo la storica vittoria in Champions League contro le “Reds” del Liverpool, squadra famosa anche per i suoi tifosi che, al termine di ogni partita, indifferentemente dal risultato intonano il mitico “you’ll never walk alone” (non camminerete mai da soli). Avercene…

Il perché la squadra dell’Acf Brescia, allenata da Milena Bertolini, possa essere una metafora della realtà parte dal presupposto che calciatrici e non, le donne sono sempre messe di fronte ad un bivio: scegliere fra una cosa o l’altra. In particolare accade negli ambienti di lavoro; fatto salvo che poi quelle stesse donne nella vita di ogni giorno fanno miracoli palleggiando se stesse tra i ruoli di lavoratrice, madre, compagna e magari pure badante di genitori anziani. Ma questo passa sotto silenzio, perché a tutti bastano i risultati in un fantomatico welfare: quasi fosse obbligatoriamente iscritto nel dna di ogni donna che nasce.

Non sono certo per mitizzare il gioco del calcio femminile tanto meno rispolverare concetti di quel femminismo che, trascorsi anni dalle rivendicazioni e dai risultati ottenuti, oggi si affloscerebbe per stanchezza davanti anche solo ai dati elaborati dall’Unione Europea che evidenzia in un report come, ad esempio, le donne guadagnino il 16% meno degli uomini: “Quando si tratta di donne, per ogni piccolo passo in avanti che viene fatto sembra si debba ringraziare qualcuno” affermava l’allenatrice Milena Bertolini alla vigilia della partita di Liverpool. Parlava dell’inerzia dei vertici del gioco del calcio, a partire dalla Figc e simili, che riferendosi alle sportive le avevano definite “handicappate” e “quattro lesbiche alle quali dare soldi”.

Lesbiche o eterosessuali dovrebbe essere affare loro, di certo c’è che per legge queste giocatrici di serie A non sono neppure considerate professioniste bensì “dilettanti”: questo perché la normativa vigente non le riconosce come lavoratrici subordinate o autonome. Ergo: niente stipendi (solo eventuali rimborsi spese), diritti di maternità oppure Tfr. È poi di questi giorni un ddl bipartisan presentato in Parlamento che ha come obiettivo la modifica degli articoli 2 e 10 della legge numero 91 del 1981 che regola per l’appunto il professionismo sportivo in Italia. Conoscendo i politici italiani prevedo che il “contentino-legge” alle donne potrebbero magari darlo proprio l’8 marzo. Come per ribadire che basta un giorno l’anno per dare rispetto alla diversità e complementarietà dell’essere donna rispetto all’essere uomo.

In ambito istituzionale Christine Lagarde, alla guida del Fondo monetario internazionale, a febbraio aveva sorpreso tutti evocando addirittura una “cospirazione contro le donne. In troppi Paesi le restrizioni legali cospirano contro le donne per impedirci di essere economicamente attive. In un mondo che ha tanto bisogno di crescita, le donne possono dare un contributo, se solo hanno di fronte a sé delle pari opportunità, invece di una insidiosa congiura”.

Intanto sul rettangolo di gioco le ragazze hanno combattuto giocando bene e soprattutto crescendo dal punto di vista agonistico. Nella foto, che le ritrae bellissime, sorridono nello spogliatoio unite e orgogliose di loro stesse. Si intravedono le unghie dei piedi laccate di rosso e i capelli lunghi raccolti a incorniciare occhi illuminati dalla gioia che pare aver cancellato la fatica per aver sostenuto un notevole carico fisico e nervoso, grazie al quale prosegue il loro cammino verso la Champions League.

Le donne però sanno di essere sempre obbligate a scegliere. Per le atlete si tratta, ad esempio di dover rinunciare al gioco del calcio solo perché l’allenamento viene fissato il pomeriggio e non la sera lasciando una donna di fronte al solito bivio: lavoro oppure passione sportiva da alimentare con piccoli rimborsi spese che non coprono neppure le spese per la benzina.

Nella vita di ogni giorno basta scartabellare i report su per scoprire che tutto è a sfavore di donna: generalmente ottima per essere vice di qualcuno (perché capace e “devota” al senso di dovere verso il proprio lavoro) ma sempre troppo poco autenticamente “a capo” di qualcosa anzi spesso con nomine piovute dall’alto (di uomini) che in questo modo possono gongolarsi dietro il rispetto di presunte “quote”.

Io credo che se alle ragazze del calcio non interessi “avere le palle” è altrettanto vero che alle mamme-lavoratrici-badanti (che nel tempo libero magari riescono anche a fare le volontarie) importi per nulla essere riconosciute per i loro “attributi”: basterebbe almeno condividere e che venisse riconosciuto il peso di dovere essere sempre, necessariamente, così tanto “multitasking”.

Oppure avere la certezza che la si piantasse di fare la guerra – più o meno sommersa – per mantenere inalterate discriminazioni e disuguaglianze sul mercato del lavoro tali da produrre anche vecchiaie più povere rispetto agli uomini. Infatti percependo una retribuzione oraria inferiore e accumulando un minor numero di ore di lavoro, le donne – ammesso che venga loro riconosciuta – hanno pensioni ridotte rispetto agli uomini.

Dunque, Gender Gap? Per me, siamo tutte calciatrici!

Ps: Intanto le giocatrici, proprio questo fine settimana e per la prima volta da sempre, avevano annunciato uno sciopero poi revocato: questa domenica infatti è previsto che si giochi la prima giornata di campionato di serie A femminile, ma la prova del disinteresse assoluto da parte dei vertici della Figc arriva dal fatto che nessuno si è ancora preoccupato di fissare i criteri di retrocessione e promozione delle squadre della massima divisione.

Tanto sono solo “quattro lesbiche a cui dare soldi”.