Diritti

Unioni civili, ‘formazioni sociali specifiche’ e lentezza dell’evoluzione italiana

gay 675

Lascio il mio spazio qui su ilfattoquotidiano.it a Caterina Coppola, giornalista e impegnata in prima linea per i diritti delle persone Lgbt. Lo faccio perché sono parole che avrei potuto scrivere anch’io e mi sembra doveroso condividerle qui, in queste pagine. Buona lettura.

«Massimalisti, gufi, gente che “rema contro”. Nei confronti di chi chiede pari diritti in un paese ricoperto dal ridicolo della propria arretratezza, sono questi gli appellativi che vengono utilizzati. E a pronunciarli non sono i detrattori delle unioni civili (che usano toni ben più pesanti, ma fanno il loro gioco). Sono coloro che la legge attualmente in discussione la appoggiano senza se e senza ma. Talmente senza se e senza ma che paiono disposti a qualsiasi compromesso pur di portarla a casa. E guai a far notare loro che le parole usate nel testo dell Ddl Cirinnà possono precludere la strada alla parità totale, invece che aprirla, che un aggettivo, nel linguaggio giuridico, è molto di più di un orpello stilistico. Sei un gufo, è evidente.

Perché, pur accettando a malincuore che oltre le unioni civili questo Parlamento non è in grado di riconoscere, non si può pretendere che chi di quella legge usufruirà non ne evidenzi le criticità ribellandosi a ulteriori compromessi, spesso avvalendosi del parere di giuristi che hanno al loro attivo anni di sentenze grazie alle quali ora non ci sono più alibi per non riconoscere i diritti che spettano alle coppie gay e lesbiche e alle loro famiglie. Questo, però, invece di essere vissuto come uno stimolo a puntare nella direzione giusta, viene visto come il tentativo di ostacolare. Con il rischio, per niente remoto, che ciò distragga dall’obiettivo reale: impedire che la legge si impantani, tra un rinvio, una mancata calendarizzazione, una sempre valida “altra priorità” ecc. ecc. E contro queste richieste, legittime, si sentono avanzare le opposizioni più umilianti, non solo per chi continua a vedersi negare la parità sociale, ma per chiunque abbia una cultura media, del senso critico e un’autonomia di pensiero.

Emblematica, in questo senso è una posizione letta di recente, di cui non cito l’autore, dichiaratamente renziano, perché è solo un esempio di un’impostazione condivisa da molti. “Se i sindacati dei lavoratori a fine ‘800 avessero preteso lo statuto dei lavoratori – si legge -, forse sarebbero parsi dei visionari e non ci sarebbero arrivati quasi cento anni dopo”. Un’affermazione che non tiene conto di alcuni fattori che non sono dettagli.

Innazitutto, il 2015 non può essere paragonato alla fine dell’800, in termini di velocità dell’evoluzione delle società e in termini di quadro globale della questione dei diritti (dei lavoratori, in questo caso specifico). Quando il Movimento Operaio nacque, la situazione degli operai era la stessa in tutto il mondo interessato dalla rivoluzione industriale. Quel movimento era, in sostanza, avanguardia pura, l’embrione di una coscienza di classe che avrebbe portato nei decenni successivi milioni di lavoratori delle fabbriche ad acquisire la consapevolezza della condizione in cui i padroni delle fabbriche li tenevano. Non è il luogo, questo, per dilungarsi nell’analisi di tutto quello che da quel movimento è venuto, in termini sociali, politici, economici e storici, ma tornando all’infelice paragone, non si può certo pensare che l’Italia di oggi sia paragonabile ad un qualsiasi paese di quell’epoca, neanche metaforicamente.

Non solo il movimento di rivendicazione dei diritti delle persone lgbt non nasce ora, ma ben 40 anni fa, ma in questi 40 anni il resto del mondo ha fatto passi da gigante: leggi contro l’omofobia, contro gli hate speech, leggi che riconoscono le coppie i loro figli e (non ci crederete) perfino le adozioni, progetti contro il bullismo omotransfobico nelle scuole, educazione alla parità di genere. L’elenco sarebbe troppo lungo e quasi nulla di questo elenco riguarda il nostro paese. Per quale ragione, dunque, immersi in un contesto del genere, dovremmo ritenerci al pari del Movimento Operaio della fine dell’800 se non per dare ragione a chi, a quell’epoca, vorrebbe riportarci possibilmente per non farcene uscire mai più?

Perché dobbiamo chiarirci le idee: o facciamo parte dell’Occidente progredito e civile, che si contrappone ad un Oriente in cui trovano terreno fertile pericolosi fondamentalismi, o non lo siamo. O siamo membri dell’Europa a pieno titolo, ne invochiamo, giustamente, un maggiore ruolo politico, e quindi scegliamo di seguire i paesi che prima di noi hanno saputo rendere i propri cittadini tutti uguali davanti alla legge, oppure ne siamo fuori. Perché “ce lo chiede l’Europa” non può valere solo per le riforme delle pensioni che lasciano per strada migliaia di esodati, per le tasse che portano alla disperazione artigiani e piccoli imprenditori, per le riforme che costringono insegnanti cinquantenni a lasciare casa e famiglia in nome dell’agognato posto fisso. Deve valere anche sul fronte dei diritti, per le cui colpevoli mancanze, l’Italia è stata più volte condannata e ripresa ora dall’Ue, ora dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, ora dall’Onu. E non sono i “gufi e i “massimalisti” a impedire che il nostro paese si ponga, finalmente, al pari dei compagni di viaggio del Vecchio Continente e degli alleati del Nuovo. È la classe politica che è chiamata a fare leggi perché questo avvenga. E che siano rispettose della dignità di tutti i cittadini. Pena il salto indietro all’800.»

di Caterina Coppola