Cinema

Festival di Venezia 2015, Rabin – The last day: Amos Gitai ricostruisce la morte dell’uomo che aveva osato sfiorare la pace

Nel raccontare l'assassinio del primo ministro israeliano che aveva firmato gli accordi di Oslo con Arafat, Gitai sembra davvero entrare nella storia per estrapolarne il dolore e ridonare allo spettatore l’orrore della radicalizzazione estremista che sfocia nella morte

“Israele non è un processo religioso ma politico. E per rimanere tale non bisogna inseguire megalomanie e deliri religiosi”. Questo il nucleo concettuale, pulsante, vivo, e terribilmente contemporaneo di Rabin – The last day – sorta di biopic del primo ministro laburista che volle la pace con i palestinesi e venne assassinato da un estremista ebraico nel 1995 – che Amos Gitai consegna al Concorso di Venezia 72 per provare ad ottenere un premio di rilievo. Una sequenza su tutte può illustrare la potenza espressiva di un cineasta instancabile, capace di raccontare l’infinita contraddizione del suo paese, un paese perennemente in conflitto col mondo. Nella vivida e credibile ricostruzione degli insediamenti dei coloni, più che contrari, letteralmente ostili in armi, contro il governo di Yitzhak Rabin e Shimon Peres nei primi anni Novanta, poco prima degli storici accordi di Oslo assieme a Clinton e Arafat, Gitai decide di filmare una sorta di quotidianità tra i prefabbricati tirati su in fretta per non consentire agli arabi di occupare fette di “terra promessa”. E lo fa con una simbolica carrellata laterale dove davanti all’obiettivo scorrono libri sacri e mitragliette. L’origine del male, della violenza e della brutalità, dell’omicidio di Yitzhak Rabin, non è una generica e laicizzata ideologia militare deviante, ma una vera e propria fatwa, che secondo i gruppi di estremisti ebraici, non di certo quattro gatti nascosti in qualche eremo, si traduce nel Din Rodef. Sostanzialmente, se un uomo mette a repentaglio la vita dello stato di Israele può essere ucciso. Lo dice chiaro e tondo anche il killer di Rabin, Yigal Amir, oggi a scontare realmente l’ergastolo, nella ricostruzione del suo interrogatorio. Pieno di strafottenza e sghignazzi verso l’inquirente, il ragazzo che con tre colpi di pistola ha messo fine al possibile processo di pace in Israele, sostiene che ha agito per via del Din Rodef.

Sgomberiamo però subito il campo del complottismo. In Rabin – The last day, Gitai ricostruisce con maggiore raffinatezza espressiva di un Oliver Stone con JFK, un cocciuto e puntiglioso percorso di ricognizione storica e morale attorno alle indagini e alle deposizioni raccolte dalla commissione Shamgar sull’omicidio del primo ministro. Quindi nessuna nuova prova, ma solo tanto dolore. Per quell’occasione sfuggita di mano, per quell’uomo mite, ragionevole e coraggioso che provò a far correre la storia verso un equilibrio mai più raggiunto. “Non ci fu cospirazione, ma incitazione alla destabilizzazione verso un leader eletto democraticamente di cui non ho voluto mitizzare alcunché”, spiega Gitai in conferenza stampa dopo aver chiesto a tutti di osservare un minuto di silenzio per le vittime del perenne scontro israelo-palestinese. “La commissione Shamgar aveva un mandato giuridicamente limitato e poté solo rilevare le falle nel sistema di protezione quella tragica sera in piazza dei Re d’Israele a Tel Aviv. Uno dei tre giudici spiega proprio alla fine del film che dopo quelle tre pallottole il destino di Israele è mutato in modo irrimediabile”.
Rabin – The last day è un lavoro mastodontico sulle parole dell’omicida, dei testimoni sentiti dalla commissione e dagli inquirenti; come delle scarse immagini di quella notte insanguinata ricostruite tutte in una fiction come rabbuiata e dolente, caricata su alcuni primi piani di un’intensità emotiva travolgente e da spezzoni d’archivio che punteggiano saltuariamente la finzione, come per mostrare che Gitai sembra davvero entrare nella storia per estrapolarne il dolore e ridonare allo spettatore l’orrore della radicalizzazione estremista che sfocia nella morte: “Israele è un progetto politico e non religioso nato dalla sofferenza degli ebrei perseguitati per secoli. Questo progetto dovrebbe rimanere politico, un modo per accomodare la realtà e non seguire megalomanie e deliri religiosi. La politica si deve attenere alla politica. La stabilizzazione in Medio Oriente si ottiene solo rispettando gli altri. Rabin aveva ragione quando una volta eletto volle subito risolvere il conflitto israelo-palestinese. Poi non sono un ingenuo: in Medio Oriente ci sono anche stati nazionali con cattive intenzioni, ma non esiste nemmeno la pace unilaterale”.

Certo che l’odissea dentro a queste scuole della Torah, con persone incappucciate e piegate al ritmo di un canto sacro che pontificano sulla morte ‘giusta e condivisa’ di Rabin; o quell’altra riunione tra capoccioni estremisti dove una psicologa viene chiamata ad analizzare il profilo psicologico del primo ministro (“è schizofrenico”) affossano ogni speranza di dialogo per chi vive in una tale dimensione di follia autocelebrativa su basi religiose, che tanto ricorda le odierne e crudeli pratiche dell’Isis islamista. Una breve coda, su una sorta di allusione ad un mandante morale dell’assassinio del primo ministro: quel Benjamin Netanyahu che durante il film vediamo in alcuni immagini d’epoca incitare folle anti-Rabin, dove il presidente laburista veniva disegnato come nazista e soggetto a minacce di morte. Oggi Netanyahu fa da sfondo nei poster elettorali che compaiono nell’uscita di scena di uno dei tre giudici della commissione Shamgar (gli attori magnifici sono Yitzhak Hiskiya, Pini Mittelman e Michael Warshaviak) sotto una pioggia battente: “Oggi in Israele vedo il lento scivolamento della maggioranza silenziosa verso la repressione delle libertà di espressione, di dissenso e delle minoranze. La cultura, l’arte, il cinema, devono sapere far parlare la voce non omologate. Anche se so che le pistole sono sempre più efficaci dei film”.