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Migranti, storia di Aylan: bimbo della foto-simbolo. Il papà: “Ho provato a salvarlo”. La fotografa: “Ero pietrificata”

Abdullah al-Kurdi ha raccontato di aver provato altre volte a scappare. Il Canada gli offre accoglienza: "Non andrò. Porterò i corpi a Kobane e passerò lì il resto della mia vita". L'Onu: "Il mondo intero guardi alla crisi di rifugiati e migranti". L'Unicef: "Lo choc non basta, ora bisogna agire per evitare di dare la vita dei bambini in mano ai trafficanti"

Aylan Kurdi giaceva senza vita a faccia in giù, tra la schiuma delle onde, nella sua t-shirt rossa e nei suoi pantaloncini blu scuro, piegati all’altezza della vita. L’unica cosa che potevo fare era fare in modo che il suo grido fosse sentito da tutti”. Nilufer Demir è la fotoreporter che ha scattato la foto simbolo della crisi umanitaria legata all’immigrazione: sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, Aylan, tre anni, è morto scappando dalla guerra. Insieme a lui hanno perso la vita altre 11 persone, tra cui il fratello Galip che di anni ne aveva 5. Un’immagine che è rimbalzata sulle prime pagine di alcuni dei principali giornali del mondo e che è diventata il centro del confronto politico internazionale sulla questioni migranti. Tanto che secondo il Guardian il premier David Cameron in Gran Bretagna ha ammorbidito la propria linea proprio dopo aver visto quella foto. E a intervenire ora è anche l’Onu: “Tutti abbiamo visto l’orribile foto del bimbo siriano morto sulla costa turca – dice un portavoce – Questo deve attirare l’attenzione del mondo intero sulla crisi dei rifugiati e dei migranti”. Ora devono essere affrontate “le cause che sono alla radice della crisi in Siria e Iraq e a trovare una soluzione politica”. Ma, avverte il direttore esecutivo di Unicef, Anthony Lake, “non è sufficiente che il mondo rimanga scioccato, lo choc deve essere accompagnato da un’azione. La situazione in cui si trovano questi bambini non è una loro scelta, né è sotto il loro controllo. Hanno bisogno di protezione, e hanno diritto alla protezione”.

Il padre di Aylan: “Ho tentato di salvare i miei ragazzi”
A parlare è anche il padre di Aylan e Galip, Abdullah al-Kurdi: “Ho tentato di salvare i miei ragazzi – racconta a Radio Rozana, stazione radiofonica vicina all’opposizione siriana – Li stringevo entrambi quando la barca si è capovolta, ma un’onda alta prima ha ucciso mio figlio più grande, Galip, e poi si è presa il più piccolo”. Anche Rehan, moglie di  Abdullah e mamma dei due bambini, è morta. Abdullah ha spiegato che aveva provato a raggiungere l’Europa tante volte per scappare da Kobane, la città curda assediata lo scorso anno dai jihadisti dello Stato islamico: “Stavolta ero riuscito, con l’aiuto di mia sorella e mio padre, a mettere insieme 4mila euro per fare questo viaggio”. A metà della traversata, dice, la piccola imbarcazione di cinque metri sulla quale viaggiava con i suoi familiari è stata colpita da diverse onde. “Improvvisamente abbiamo visto il trafficante turco saltare in mare e ci hanno lasciati soli a lottare per le nostre vite. Sono rimasto tre ore in mare, fino all’arrivo della guardia costiera turca”. Le autorità turche hanno arrestato i 4 presunti scafisti.

“Il Canada aveva rifiutato il visto”
L’Ottawa Citizen, quotidiano canadese, sostiene che la zia di Ayalan, Teema Kurdi, attualmente viva nel paese nordamericano e abbia fatto diversi tentativi per far ottenere il visto a tutta la famiglia; la richiesta sarebbe stata rifiutata in giugno. Dopo quanto accaduto il governo canadese ha offerto ad Abdullah la possibilità di andare lì: “Dopo quanto è accaduto, non voglio andare. Porterò i corpi prima a Suruc, poi a Kobane. Passerò lì il resto della mia vita” – ha detto l’uomo – “Voglio che il mondo intero ci ascolti dalla Turchia, dove siamo arrivati fuggendo dalla guerra. Sto soffrendo tantissimo, faccio questa dichiarazione per evitare che la stessa cosa succeda ad altri”.

Il racconto della fotografa: “Ero pietrificata”
In un primo momento, quando ho visto quel bimbo, ero pietrificata” racconta la fotografa Demir. Il fratello di Aylan, “Galip, giaceva a 100 metri – ha spiegato Demir – Mi sono avvicinata e ho visto che non aveva giubbetto salvagente, braccioli galleggianti o qualunque cosa che potesse aiutarlo a restare a galla”. La fotoreporter ha poi aggiunto che immortalare quella scena era un suo dovere professionale, nella speranza che, grazie a quello scatto, “qualcosa possa cambiare”.