Cultura

Fotografia: non basta dire ‘storytelling’

foto © Leonello Bertolucci
(foto © Leonello Bertolucci)

Giochiamo a fare gli ingenui: c’è posto, nell’editoria (soprattutto italiana), nel mondo del fotogiornalismo, nei media in generale e presso il pubblico di sani, seri e robusti fotoracconti?

Domandare ai fotografi che provano a viverci, costretti a cambiare mestiere o alla fame, per una risposta al quesito.

Sappiamo: lo spazio visivo di un racconto per immagini coerente e strutturato mal si addice alla velocità, al marketing, all’evasione, al disimpegno che in editoria (online e cartacea) regnano sovrani.

Se oggi dici “fotoracconto” pronunci parole che suonano antiche, polverose, romantiche, desuete, che profumano di miti tramontati, di Life

Ma una domanda sorge spontanea: e perché, se invece diciamo storytelling – che sempre raccontare storie significa – tutto diventa strafigo, alla moda e ultra contemporaneo?

I raccontatori di storie con la macchina fotografica non trovano spazio (costretti a inseguire premi nei concorsi o inventarsi “artisti” per sopravvivere), ma ogni secondo nasce un nuovo storyteller. Se si vuole fare il pieno con un workshop fotografico, il titolo deve tassativamente comprendere la parola storytelling. E già!

Ora qualcuno inizierà a fare distinzioni di senso, di significato, di tecniche e di diffusione tra i due modi di dire – più che d’intendere – quello che di fatto la fotografia ha nel suo Dna: raccontare, appunto.

Per foto-racconto non si è mai inteso esclusivamente un approccio legato al giornalismo: c’era anche una “poetica” del racconto fotografico, a volte a cavallo tra realtà e finzione, e con la fotografia si “scrivevano” non solo reportage ma anche racconti brevi o interi romanzi.

L’uso illustrativo, decorativo, e oggi più che mai quello discorsivo e relazionale, sono tutti ottimi utilizzi, contemporanei, soddisfacenti, leciti, appaganti e spesso pure paganti.

Ma il groviglio di vita, l’empatia di uno sguardo, l’umanità che c’interroga, l’approfondimento, il tarlo del dubbio, il mondo che tenta di rivelarsi per frazioni di secondo, tutto questo attiene alla vocazione che la fotografia possiede di raccontare storie.

E allora non raccontiamoci storie: per recuperare attenzione, spazio e investimenti su questo versante della fotografia, non basta dire storytelling: le foto dei gattini e di Belen vinceranno comunque, fino a nuovo ordine. Nuovo ordine che in alcuni Paesi sta arrivando, laddove a decidere non è la moda di un vocabolo, ma il coraggio di credere che la qualità, prima o poi, paga sempre, e che sempre ci sarà spazio per una buona fotografia.

Nell’attesa di qualche improbabile miracolo anche dalle nostre parti, tanti fotografi italiani (considerati tra i migliori al mondo) continuano a raccontare con grande talento e sensibilità storie, piccole o grandi, vicine o lontane, e lo fanno contro logiche di mercato che consiglierebbero piuttosto l’apertura di una pizzeria.

Lo fanno – quelli bravi – infischiandosene poi delle definizioni lessicali.
Benedetta passione, che vince su tutto! Dannata passione! E dannato due volte chi se ne approfitta, chiamandoli magari… storytellers.

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