Scuola

Università e facoltà umanistiche: l’equivoco delle 3 culture

In un paese a bassa crescita ed elevata disoccupazione come l’Italia è doveroso interrogarsi sul rendimento atteso degli studi universitari, come ha fatto Stefano Feltri nel post che ha generato accese discussioni e vergognosi attacchi all’autore che non meritano commento.

A giudicare dai toni, credo che molte persone facciano confusione su 3 differenti accezioni di cultura e che questo sia d’ostacolo a una discussione serena. Proviamo a definire cultura di base (1), le competenze elementari necessarie ad acquisire tutte le altre competenze; cultura professionale (2) l’insieme delle abilità necessarie per svolgere un’attività lavorativa e cultura “edonistica” (3) quella volta al puro piacere individuale.

La prima è un bene meritorio, a cui tutti dovrebbero avere la possibilità di accedere, a prescindere dal costo e dalla capacità del singolo di pagare: nei paesi civili la formazione necessaria per conseguirla è obbligatoria, mentre il costo è generalmente carico della collettività. La cultura edonistica è invece un bene come gli altri, il cui consumo è in genere demandato alle preferenze e disponibilità individuali, salvo alcune forme di incentivo/sussidio a carico della collettività (agevolazioni per acquisto di libri etc). La cultura professionale è l’unica assimilabile ad una forma di investimento e pertanto ha molto senso effettuare analisi come quella dello studio Ceps citato da Feltri.

Gli ostacoli principali a una discussione serena su quest’ultimo punto, derivano dalla confusione nei confini delle 3 culture: ad esempio chi crede che il greco e il latino consentano di comprendere meglio il mondo che ci circonda, considererà lo studio di tali materie cultura di base, bene meritorio, e di conseguenza, opporrà resistenza a qualunque evidenza empirica deludente sul rendimento atteso degli studi umanistici. Peraltro, se formiamo la nostra classe dirigente al liceo classico, non è accettabile che le facoltà umanistiche costituiscano un investimento in formazione con rendimento negativo. Parimenti, questo pregiudizio si riverbera anche nella distinzione tra cultura edonistica e professionale: se la cultura professionale è l’unica con un valore economico finanziariamente calcolabile, la cultura edonistica avrà per contro un valore extraeconomico incalcolabile.

Lo schema delle 3 culture dovrebbe aiutarci a esaminare le statistiche del Ceps senza paraocchi ideologici: le facoltà che hanno un valore attuale netto negativo, sono una scelta razionale per chi vi si iscrive per finalità edonistiche, ma un pessimo investimento per chi si iscrive all’università solo per trovare lavoro.

Messi da parte i pregiudizi e chiarito lo schema di riferimento si può ampliare la discussione lungo direttrici inattese: e se la spendibilità sul mercato del lavoro degli studi umanistici, fosse determinata anche da carenze in alcune competenze di base (logica, web, analisi costi benefici etc)? Le società più moderne e innovative assumono cervelli più che laureati in questo o in quello e potrebbero trovare interessante un filologo, che si è interessato anche di software per l’analisi dei testi e ha potuto farlo perché a conoscenza delle potenzialità della programmazione informatica.

Non è poi possibile che la mediocre gestione “commerciale” del nostro patrimonio culturale sia il frutto anche di una specie di complesso di superiorità dei fautori della cultura classica e che, per contrappasso, sia proprio questo a determinare le difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro per chi ha fatto questi studi? Forse invece di attaccare il giornalista, che ci espone evidenze statistiche sconvenienti, dovremmo interrogarci sui danni causati alla collettività da concezioni distorte di cosa è o meno cultura.

Concludo con un aneddoto personale: ho conosciuto una prestigiosa società multinazionale che per policy di assunzione, in Italia prendeva in considerazione solo (pochi) laureati in economia e ingegneria e solo se provenienti da 3 università. Non entro nel merito di questa scelta, tuttavia la stessa società, per gli stessi ruoli, in Inghilterra e Stati Uniti assumeva tranquillamente anche laureati in filosofia o in materie umanistiche. La discriminante nella scelta era costituita da alcune competenze di base come problem solving,etc che nella loro esperienza (o congettura) nei paesi anglosassoni erano presenti in candidati provenienti da tutte le facoltà, mentre in Italia solo nel ristretto insieme che prendevano in considerazione.

A molti potrà apparire un arbitrio o un’ingiustizia, personalmente all’epoca ho provato solo invidia per quei paesi dove un laureato in filosofia poteva tranquillamente lavorare in consulenza aziendale o in finanza e rabbia nei confronti dell’Italia, dove questo appariva inconcepibile a studenti e datori di lavoro.