Economia & Lobby

Università, gli studi belli ma inutili e l’ascensore sociale bloccato

Potrei dedicare molte righe alle repliche arrivate ai miei due post precedenti, (‘Il conto salato degli studi umanistici‘ e ‘Studiate quello che vi pare, ma poi sono fatti vostri‘) a come i paladini del principio “bisogna studiare quello che ci piace e non quello che è utile a trovare lavoro”, commettano grossolani errori nel leggere i dati, sfuggano al problema principale che ho posto (chi ci paga uno stipendio dopo che abbiamo studiato quello che ci piace?) e si rifugino in citazioni autorevoli, perché ovviamente preferiscono il principio di autorità rispetto ad argomenti sostenuti da numeri. E ritengono un grande scandalo, per misteriose ragioni, il fatto che io abbia studiato alla Bocconi.

Ma preferisco aggiungere elementi al dibattito che, per chi si è perso le puntate precedenti, si riassume così: a cinque anni dalla laurea (magistrale) il tasso disoccupazione tra chi ha studiato medicina è 1,5 per cento, tra gli ingegneri il 2,9 per cento ma schizza al 17,3 tra chi ha studiato materie letterarie, al 14,6 per le materie giuridiche (ci sono laureati sottopagati che lavorano in nero per anni per gli avvocati ma da statistica risultano comunque disoccupati), 13,6 per cento per “geo-biologia”, 12,9 per psicologia, 12,5 per scienze della formazione. Questi i dati Almalaurea sui laureati 2009.

E, pietra dello scandalo, secondo uno studio del think tank CEPS, fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, per un uomo laureato in Legge o in Economia o Scienza politiche è 273, ben 398 se in Medicina. Soltanto 55 se studia Fisica o Informatica (le imprese italiane hanno adattato la propria struttura su lavoratori economici e poco qualificati). Se studia Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265. Numeri che considerano anche la difficoltà stimata dei corsi in termini di ore di studio in classe e a casa. Tradotto: in Italia, studiare una facoltà difficile come Informatica paga relativamente poco, Lettere richiede molto meno impegno, quindi ha un costo più basso, ma anche risultati molto deludenti. Risultati anche da prendere come una base di ricerca, perché costruiti su poche decine di osservazioni, ma ci danno comunque spunti di riflessione.

Dobbiamo tener conto di questi numeri quando scegliamo l’università? O ci dobbiamo affidare solo alla “vocazione”, fregandocene delle prospettive future?

Premessa: in Italia si laurea poca gente, troppo poca (si potrebbe anche obiettare che se studia cose inutili, finisce fuori corso ecc. è meglio così, ma le statistiche dicono invece che comunque un po’ di aiuto a trovare lavoro la laurea lo dà sempre). Qui sotto alcuni grafici che prendo da una presentazione al Festival dell’Economia di due economisti Ocse, Orsetta Causa e Giovanni Nicoletti Le loro ricerche nel dettaglio le trovate qui.

Secondo punto: il sistema universitario italiano fa un po’ schifo, scusate l’eccesso di sintesi. Almeno sulla base delle competenze che vengono riscontrate tra gli studenti italiani e tra gli adulti. Qui ci sono i punteggi Pisa in lettura, matematica e scienze del 2012, rilevati dall’Ocse, raccolti tra gli studenti delle superiori. E a fianco i risultati tra gli adulti: non si vedono grandi miglioramenti. Queste non sono mie opinioni, sono dati. Ovviamente contestati dai tanti, in Italia, che ritengono che la cultura non si possa misurare. Negli altri Paesi, però, magari si misura male uguale ma i ragazzi ottengono punteggi migliori.

Terzo dato rilevante, ai fini della nostra discussione: secondo l’Ocse, un terzo dei lavoratori italiani occupa un posto che non corrisponde alle sue competenze. Così, a spanne, tendo a pensare che sia più facile trovare un esperto di letteratura inglese in un call center piuttosto che uno scienziato informatico a staccare biglietti in un museo.

Se questo è lo scenario, le spiegazioni possibili sono solo due (entrambe vere): gli studenti italiani studiano cose giudicate inutili dal mercato del lavoro e le imprese italiane non sono in grado di valorizzare le competenze dei loro dipendenti, per esempio un laureato magistrale in economia si trova ad avere le stesse mansioni e quasi lo stesso stipendio di un diplomato in ragioneria. Su questo punto torneremo.

Mi sembra che le conclusioni siano evidenti: possiamo crogiolarci nella nostra retorica (anche renziana) di essere il Paese del Rinascimento, la culla della civiltà e di Dante. Ma nella competizione internazionale siamo messi molto male. Molto. E’ chiaro che studiamo le cose sbagliate e, per aggravare la situazione, le studiamo anche male. Prevengo l’obiezione, fondata: se anche studiassimo benissimo le cose che negli altri Paesi ritengono prioritarie, tipo scienze informatiche, probabilmente le imprese italiane non saprebbero che farsene. Vero. Ma da qualche parte bisogna pur provare a rompere il circolo vizioso. Ed è più facile che, se ci sono tanti ingegneri informatici, questi – magari da dentro le imprese – migliorino il mercato del lavoro. Ma formare migliaia e migliaia di scienziati della comunicazione di sicuro non aiuta.

Infatti il rendimento atteso delle lauree in Italia è molto più basso che altrove. Per forza: come abbiamo visto sopra sono molto meno utili che in altri Paesi, nel senso che il datore di lavoro paga spesso i dipendenti per fare cose diverse da quelle che hanno studiato. Questo il rendimento del diploma universitario al netto dei costi (non distingue per facoltà):

In tanti commenti ai due post precedenti, si rivendica il diritto di studiare come (e quanto) si crede, seguire la propria vocazione senza “mercificare” le proprie scelte di vita. Mi spiace informarvi, cari difensori del “studia quello per cui ti senti portato senza pensare alle prospettive”, che questa è una posizione di destra: l’istruzione è l’unico ascensore sociale che funziona, in Italia e non solo.

Chi viene da una famiglia ricca e colta, avrà possibilità ed esperienze che i suoi coetanei meno abbienti non avranno (vacanze studio all’estero, lezioni private, corsi di musica, relazioni ecc). Se il successo individuale dipende da queste variabili, molto più che da quanto si studia a scuola e all’università, le disuguaglianze si perpetuano di generazione in generazione.

Soltanto se l’istruzione – che a questo scopo è finanziata dallo Stato – riesce ad assicurare a tutti i meritevoli competenze e opportunità allora diventa un fattore di democrazia, invece che un hobby.

Studiare cose belle e interessanti ma inutili per il mercato del lavoro, condanna migliaia e migliaia di ragazzi alla disoccupazione o alla sottoccupazione. E congela l’ascensore sociale.

Il sistema, il governo, le imprese e i baroni delle università hanno le loro colpe. Ma anche le nostre scelte individuali contano ancora qualcosa.

P.S. Mercoledì leggerete sul Fatto in edicola un articolo di Ilaria Maselli, una delle autrici del paper del CEPS che ha scatenato queste vivaci polemiche. Lo consiglio a tutti quelli che sostengono di averci letto conclusioni opposte a quelle che ne ho tratto io.