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L’Egitto e la controrivoluzione

al sisi 675“Pane, libertà, giustizia sociale”, “Il popolo vuole la caduta del regime”, “Via, via Hosni Mubarak“, “Noi non ce ne andiamo di qui, è lui che deve andare”. Questi famosi slogan sintetizzavano molto bene non solo le ragioni di fondo della rivoluzione, ma anche la coscienza politica dei giovani e dei/delle lavoratori/lavoratrici egiziani scesi a protestare nelle strade e nelle piazze d’Egitto soltanto quattro anni fa. Ricordarli oggi procura dolore; sembrano passati secoli da allora. L’Egitto di oggi sembra essere piombato nell’angolo più buio della sua storia recente: migliaia di attivisti in prigione, una brutale e violenta repressione (anche mortale) di ogni dissenso politico, leggi che cancellano ogni diritto di libertà. Soltanto due giorni fa, infatti, è stata approvata la famigerata legge “anti-terrorismo” che prevede – in vero stile dittatoriale – la pena minima di due anni di detenzione per i giornalisti che “riportano informazioni sugli attacchi terroristici in Egitto che contraddicono le versioni ufficiali del governo” (art. 33). Tutto ciò accade mentre i più feroci nemici della “rivoluzione del 25 gennaio” occupano i palazzi del potere, dei media e dell’economia. Sembra quasi che tutto sia tornato al punto di partenza. Quasi.

E’ evidente che il processo rivoluzionario è in una forte fase di arretramento e la controrivoluzione avanza, imponente, forte dei suoi soldi, delle sue armi e dei suoi alleati internazionali. Tuttavia, si farebbe un errore di valutazione se si pensasse che l’attuale presidente Al-Sisi possa garantire per lungo tempo la cosiddetta “pace sociale”, ovvero impedire nuove sollevazioni che scuotano di nuovo dalle fondamenta sia il suo governo che l’attuale regime sociale e politico in Egitto. Ci sono alcuni dettagli che devono essere attentamente analizzati e tenuti in considerazione, dettagli che rivelano come Al-Sisi sia in realtà debole, molto più debole di Mubarak.  Quest’ultimo fondava il suo regime dittatoriale sulla costruzione di una facciata democratica, cioè intendeva dare l’impressione che vi era spazio nel paese per una competizione politica liberale tra diversi partiti, o che addirittura vi fosse spazio per il dissenso politico, ovviamente fintanto che tale dissenso non metteva in pericolo il suo regime; Al-Sisi invece fonda il suo potere su un altro tipo di facciata, ovvero egli pretende di dimostrare che in Egitto non esiste il dissenso politico.

Dunque, nessuno sforzo per costruire una (pur fittizia) apparenza democratica, soltanto la riedizione della dittatura old-style. Si potrebbe apprezzare l’ “onestà” del progetto politico di Al-Sisi, senz’altro, ma resta il fatto che la realizzazione di tale progetto, per quanto assurdo possa sembrare, è compito decisamente più difficile.  Solo la violenza, la repressione e la paura diffusa a livello molecolare nella società possono garantire l’esistenza di un simile regime. Ma per quanto tempo? Al-Sisi e i suoi alleati si illudono se pensano di aver chiuso definitivamente i conti con la rivoluzione: la crisi economica e la disoccupazione galoppano nel paese (nonostante le faraoniche imprese nel canale di Suez); gli scioperi nei luoghi di lavoro non sono mai cessati (per quanto diminuiti rispetto agli anni precedenti)…e, last but non least, in Egitto esiste il dissenso politico e il conflitto sociale, al di là dei sogni di Al-Sisi e compari. C’è, e prima o poi si riorganizzerà. Chiedere a Mubarak per credere.

A sostegno del mito dell’unità nazionale e dell’inesistenza del conflitto in Egitto, la narrazione mediatica governativa sta raggiungendo vette inenarrabili, roba che manco nell’Italia di Renzi o nella Corea dell’eterno Presidente Kim Jong-Un si vede. Volendo sintetizzare, queste sono le “verità” di regime, pompate e strombazzate incessantemente sui media: a) non c’è una opposizione politica in Egitto, ci sono solo terroristi e agenti stranieri; b) la sollevazione del 2011 contro Mubarak è soltanto opera dei Fratelli Musulmani, concepita ed organizzata in combutta con altri agenti stranieri infiltrati; c) le forze di sicurezza non hanno colpe per l’uccisione di migliaia di manifestanti; d) cacciare un presidente liberamente eletto non è un colpo di stato; e) i militari hanno trovato la cura per combattere l’AIDS e l’epatite-C.

Ecco, in fondo, se si tiene conto di tutti questi elementi, non può davvero sorprendere il coraggioso endorsement di Matteo Renzi nei confronti del Presidente-Generale Al-Sisi: “Penso che Al-Sisi sia un grande leader […]. In questo momento l’Egitto si salva solo grazie alla leadership di Al-Sisi. Sono orgoglioso della mia amicizia con lui […]“.