Media & Regime

Twitter e la crisi del pennuto panciuto: A.A.A hashtag cercasi

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Partirò da me. Sul blog che porta il nome di chi scrive, ritengo si possa fare.
Dunque: ho scelto di non essere su alcun social ad eccezione di Skype, fin dalla sua uscita, che uso per piacevoli (ed economiche) videochiamate soprattutto con quegli amici che incontro raramente perché vivono lontano. Trovo emozionante ma anche divertente parlare e guardarsi con chi risponde da una città all’ora di pranzo, quando in Italia invece è ancora o già notte.
Con il passare del tempo ho dunque bandito Facebook, evitato Twitter e seguitato a declinare le varie gentili richieste di contatto su WhatsApp.

Conosco gli account social per averci lavorato oltre che per gli entusiastici racconti di chi in Facebook, ritrova magari compagni di scuola persi per strada. Recentemente poi ho trovato simpatica e utile l’idea della figlia di amici che dovendo cambiare città, ha ben pensato di appuntarsi i nomi dei futuri compagni di classe (letti sulle pagelle affisse nei corridoi dell’istituto scolastico) che ha poi agganciato su Facebook filtrandoli a seconda delle affinità musicali. Ha attivato i contatti perché voleva che il primo giorno di scuola fosse un po’ come se già si conoscessero.
Ammetto quindi di aver sempre avuto l’impressione che la creatura di Zuckerberg fosse in grado di creare legami più forti tra le persone. Una conclusione – sarò sincera – frutto di personali sondaggi che oggi però viene suffragata dai recenti confronti dati/utenti fatti con Twitter.

Il passerotto panciuto (nonostante l’immagine più simpatica e accattivante dell’asettico logo FB) non sembra infatti aver avuto lo stesso fascino e pare immerso in una crisi ben illustrata nell’analisi realizzata e pubblicata da il Sole 24 Ore

La gran parte delle persone comuni dunque non si rispecchia negli hashtag dichiarandosi piuttosto indifferente all’idea di lanciare parole nell’oceano della rete.
In effetti a pensarci bene le parole-chiave che caratterizzano Twitter hanno una vaga somiglianza con i molto più suggestivi messaggi nelle bottiglie trasportarti dalle correnti degli oceani e che nei racconti naufragano su spiagge dorate in attesa di essere letti. I tweet ovviamente sono ben altra cosa, sdoganati dalla politica come mezzo più veloce per far sentire la propria voce: si può dire la propria su tutto, che sia intelligente o meno quello che conta è partecipare all’arena, buttarsi nel pozzo delle parole nella speranza di essere ripresi da qualche giornale. A parte i professionisti, dipendenti bulimici da tweet quotidiano che non sono mai sazi, in molti hanno assunto come slogan il “twitto dunque sono, ergo esisto”: minimo sforzo, massima resa in termini di comunicazione. Muore qualche personaggio importante? Ecco il saluto, così da poter dire di esserci stato. Un attentato? La solidarietà vola sulle ali del piccolo pennuto e così accade per ogni fatto più o meno rilevante della giornata senza però tenere conto di una postilla di non poco conto visto che, secondo gli analisti, sussiste un’ampia forbice tra i pochi che visualizzano effettivamente i tweet e quelli che poi cliccano sul contenuto.

Se il cinguettio rallenta (per nuovi contatti e punti percentuali di valore azionario in Borsa) pare funzionino bene invece  piattaforme che raccolgono petizioni on line e in cui il punto di partenza sono le storie alle quali viene offerto di aderire facendo parte, insieme, di qualcosa che possa invertire la rotta. Change.org o l’italiana Firmiamo.it ne sono un esempio. Pur trattandosi di network ai quali si accede concedendo prima il proprio indirizzo mail (dunque per i detrattori di questi sistemi un modo per entrare in possesso di montagne di dati) sembra proprio che riescano ad attrarre più di Twitter.
Forse perché anche nell’epoca del fast, del virtual e del social, alla fine le persone che non hanno presunte velleità vip preferiscono (illudersi di) “dare una mano” più che hashtaggare parole in libertà. Ho l’impressione che stiano aumentando quelli che in fondo cominciano a pensare che sia meglio regalare la propria identità più o meno virtuale e la propria privacy a favore di qualcosa di magari più concreto (almeno si spera) che la cuccumeggia della rete.
Voi cosa dite?

 e.reguitti@ilfattoquotidiano.it