Cultura

Teatro, rassegna estiva Kilowatt. Una recensione

Pinocchio

Siamo in un crocevia geografico ed artistico. Il magma ribolle, l’arte è di casa, gli influssi, i passaggi, le osmosi da sempre presenti. Siamo in un punto sulla cartina con la vista che può toccare le Marche, l’Umbria e l’Emilia, terra di Piero della Francesca, con la vicina Caprese del Buonarroti, l’Anghiari della Battaglia di Leonardo andata perduta, per non parlare del museo Burri o della Verna con la celletta di San Francesco. Terra anche della Buitoni. Anche se qui vanno più i bringoli al sugo d’ocio, i pici della zona con il ragù di papero. Nei campi girasoli e tabacco.

Kilowatt è una delle rassegne estive fiore all’occhiello, Sansepolcro il suo palcoscenico naturale. Il direttore Luca Ricci ha saputo in questi anni coniugare la bella idea dei Visionari, una quindicina di non addetti ai lavori che scelgono da video nove spettacoli che andranno a comporre il cartellone del festival, il recupero di spazi teatrali, tra questi il Teatro della Misericordia, il doppio spettacolo serale in contemporanea per pubblici diversificati, il convegno internazionale con i festival europei che utilizzano lo stesso sistema dei cittadini selezionatori. Una programmazione di qualità che ha visto Iaia Forte e Zaches, Abbondanza- Bertoni, Oscar De Summa o i Quotidiana.com, l’accoppiata Sinisi-Santeramo, i Lab121 freschi vincitori del Premio In box.

La E45 non ha niente da invidiare alla Salerno-Reggio Calabria in quanto a buche, rallentamenti, cambi di corsia, lavori in corso perenni, asfalto che si sfalda. Aria di Fanfani, nato nella vicina Pieve Santo Stefano attraversata dal Tevere, tremila abitanti, una ditta, la Tratos di fibre ottiche che praticamente assume tutto il paese, e la grande ricchezza dell’Archivio dei Diari, e del Museo abbinato, fondato nel 1984 da Saverio Tutino e che adesso raccoglie migliaia di autobiografie, attualmente 7.500 (il Premio annesso è diretto dall’attore e autore Mario Perrotta; il Premio Pieve va al memoriale mentre il Premio Città del Diario è stato conferito negli anni a Rita Borsellino e Capossela, Paolini e Celestini, De Gregori e Scola) digitalizzate e catalogate in schede in un lavoro immane e certosino, appassionato e puntuale.

L’installazione dei diari nei cassetti parlanti vale da sola il viaggio: all’apertura dei vari scompartimenti di quest’armadio virtuale voci ripercorrono le pagine e le biografie che raccontano di fame, guerra, emigrazione: un colpo al cuore. Come eravamo. Cosa ci stiamo perdendo. Il simbolo è il diario scritto da Clelia Marchi su un lenzuolo, qui esposto. Dopo “Hanno tutti ragione”, Iaia Forte si rimette i panni del protagonista del romanzo omonimo di Paolo Sorrentino, in “Tony Pagoda”. Stesso climax, ambientazione trash e parabola che non aggiunge molto al già scritto, prima, al già detto, dalla stessa attrice napoletana, poi. Una perseveranza, un’ulteriore sottolineatura di occhialoni e microfono (canta meglio rispetto al primo step), e un po’ ci ricorda un mix tra Drupi e Nino D’Angelo con una punta di Peppino di Capri intriso di Mario Merola e Califano tra disperazione e melò, battute sferzanti, “Poche cose mi rattristano di più di un museo civico di una città del centro Italia” (Sansepolcro docet), scudisciate, “Sento come dei fenicotteri che mi picchettano nel culo”, staffilate, “Mia moglie: un involtino di ansia”.

Santeramo invece in qualche modo, utilizza, seppure al contrario, la fortunata scansione temporale vista ne “La prossima stagione” in questo nuovo “Scene di interni dopo il disgregamento dell’UE”. Se nel primo si andava, sempre con catastrofismo, da oggi fino al 2065, qui è dal prossimo futuro, tra cinquant’anni, che si scende fino ai giorni nostri. Una coppia senza figli, tema caro all’autore pugliese, che, come in un dramma apocalittico pinteriano, è alle prese con qualcosa d’ineluttabile che sta per materializzarsi, un incubo che si fa reale. Il tutto si scioglie nel non credibile quando Michele Sinisi esce dal personaggio e al pubblico spiega che il prossimo brano non se la sente di recitarlo proprio perché non condivide le idee del drammaturgo. Ti aspetti rivelazioni scottanti, teorie segrete, scoperte sconvolgenti, invece in audio la stessa voce di Santeramo si accende su una spiegazione semplicistica della crisi europea, i buoni ed i cattivi, l’euro e le monete nazionali, dottrine finanziarie spicciole. Si salva la torcia (quasi olimpica, per ricordare la Grecia?) per illuminare questi tempi bui e il vetro-paravento-pensilina, semplice soluzione dai mille risultati d’impiego scenico.

Il decantato “Pinocchio” degli Zaches è inquietante come un carillon. Tutto si svolge in un’arena circense dal sapore clownesco, teatro nero delle ombre. Stereotipi: il Gatto è napoletano e la Volpe emiliana, falsi invalidi. I colori sono cupi, la fatina è una bambola di porcellana, i conigli hanno un fare carrolliano, la Commedia dell’Arte spinge e parla, il domatore degli asinelli (più canguri) mix di somiglianza tra Ollio e Poirot, isterico.

Aggiungeteci un po’ di Brecht e Melies. Insomma, potremmo dire ben fatto, ma senza originalità. Gli Zaches non sono il Teatro Del Carretto. Citazione d’obbligo per i Lab121 che mettono dentro un cubo velato il loro “L’insonne” dove esplode tutta la parola della Kristof, cruda, velenosa, sanguinosa scrittura. Un proiettore esalta le ombre che diventano morbose e aggressive, la storia scivola in un impianto raffinato, un noir dove la luce è fondamentale, un bianco e nero patologico e assillante, l’ossessivo che conquista.