Lavoro & Precari

Occupazione femminile: quanto conta la diversità sul lavoro?

Più brave, ma meno occupate e meno pagate degli uomini: è la situazione delle donne italiane. E se le quote obbligatorie nei consigli di amministrazione sono opportune, l’esperienza americana indica che occorrerebbe introdurre regole di disclosure per la diversità anche nelle posizioni dirigenziali

di Marco Ventoruzzo, 7 luglio 2015, lavoce.info *

Più brave, ma meno pagate

I dati dell’ultimo rapporto AlmaLaurea (disponibile qui) indicano che nel 2014, in Italia, qualunque disciplina si consideri, si sono laureate più donne che uomini. E più donne hanno raggiunto la laurea in corso, hanno avuto voti migliori, ottenuto più borse di studio. Risultati grosso modo analoghi si susseguono da ben più di un decennio. Eppure, le donne disoccupate o in cerca di un’occupazione sono di più degli uomini e le loro retribuzioni sono in media decisamente inferiori a quelle maschili.
La disparità è significativa anche nelle posizioni apicali: nei consigli di amministrazione delle società quotate italiane, nonostante la legge Golfo-Mosca che impone le quote di genere, solo il 20 per cento degli amministratori è donna, mentre in altri paesi europei le percentuali sono più alte.

Dimostrare che maggiore diversità in posizioni di responsabilità determini risultati economici migliori per le imprese è più complicato, anche se gli indizi non mancano. Correlazione non significa causalità, ed è possibile che non sia la presenza di amministratori donna ad aumentare i profitti, ma che le società che hanno (comunque) buoni risultati, più solide e ricche, siano più “illuminate” e attente alla diversità di genere. Un recente e ottimo studio di due giuriste di Stanford indica che l’evidenza sull’esistenza di un nesso di causalità tra presenza femminile e risultati economici non è affatto univoca. Certo, però, la diversity non nuoce e dunque deve essere incoraggiata per ragioni sociali, se non di profitto.

Stati Uniti campioni di diversità

Gli Stati Uniti sono spesso presi a modello per la corporate governance e il diritto finanziario. Ma hanno qualcosa da insegnarci sulla board diversity? La condizione femminile, nel mondo professionale americano, appare migliore che in Italia. Lo si vede anche da cose apparentemente piccole: lo stigma sociale che gli anglosassoni riservano a battute maschiliste ancora tollerate in Italia è, in realtà, sia causa che effetto di un maggior rispetto – anche sostanziale – per la diversità. Però, sorprendentemente, nelle società Fortune 500 il numero di donne nei consigli di amministrazione è leggermente inferiore al dato italiano, naturalmente dopo la legge Golfo-Mosca.

Da un punto di vista giuridico, le differenze sono dunque interessanti. Diversi paesi europei hanno optato per quote obbligatorie del genere meno rappresentato nei consigli di amministrazione. Altri sistemi, come Stati Uniti e Australia, preferiscono evitare imposizioni di legge e affidarsi semplicemente alla disclosure circa diversità di genere e rappresentanza delle minoranze in azienda, auspicando che la pressione sociale dia risultati virtuosi (anche in Italia qualche tenue cenno all’informazione sul punto c’è, ma solo per i cda). Da noi un simile approccio non servirebbe: troppo differente è la situazione di partenza e più forti gli stereotipi che occorre sconfiggere. Negli Usa, il Dodd-Frank Act del 2010, la legge firmata da Barack Obama in risposta alla grande crisi, contiene una norma, l’articolo 342, che delega le agenzie federali a dettare regole in materia. Poco tempo fa la Sec (Securities and Exchange Commission – l’autorità di vigilanza della borsa) e altre autorità amministrative hanno emanato le linee guida alle quali intendono attenersi per l’industria finanziaria. In sostanza, si lamenta un eccessivo affidamento all’autoregolamentazione e alla volontarietà nella predisposizione e diffusione di informazioni sulla diversity e l’autovalutazione delle politiche adottate rischia di essere poco incisiva e variabile da emittente a emittente, quindi difficilmente comparabile. La mancanza di precisi standard e definizioni per misurare la presenza di minoranze e donne, inoltre, rende pressoché impossibile l’attuazione degli obiettivi del legislatore federale. Con una mossa inusuale, anche il commissario della Sec – Luis Aguilar (un ispanico) – ha reso pubblico un forte dissenso da questo approccio. Aguilar rileva come l’industria finanziaria sia maschilista e chiusa: cita che mentre solo il 31 per cento degli addetti del settore sono maschi bianchi, la percentuale sale al 64 per cento tra i top manager. Minoranze etniche e donne sono rispettivamente il 30 e il 59 per cento della forza lavoro, ma tra i top manager sono solo il 10 e il 29 per cento. Conclude quindi che le blande e non vincolanti informazioni richieste sono insufficienti e non rispettano lo spirito del Dodd-Frank Act e auspica l’adozione di un vero obbligo di informazione dettagliato dall’autorità di controllo, individuando esplicitamente le società che non adempiono correttamente. Arrivando anche a suggerire che, almeno la Sec, si discosti dalla strada seguita da altre agenzie di regolamentazione.

Fermo restando che in Italia le quote obbligatorie per i cda sono opportune, l’esperienza americana offre però almeno due spunti di riflessione.
Primo: occorrerebbe fare qualcosa anche per le posizioni dirigenziali, non solo per il cda. Un posto da amministratore è visibile e (forse) prestigioso, ma spesso un po’ simbolico e non molto incisivo per promuovere maggiore uguaglianza nell’organigramma. Gli amministratori non esecutivi donna hanno ben poca voce su chi viene assunto o promosso nella gerarchia aziendale interna (generalmente non ne sono nemmeno informate); sono i dirigenti, che vivono quotidianamente in società, ad avere maggior rilievo nella battaglia contro le discriminazioni a tutti i livelli.
Secondo: forse anche in Italia e in Europa, ci sono altri gruppi da tutelare oltre alle donne, come minoranze etniche e persone lesbiche o gay. Nessuno suggerisce di imporre quote a favore di diverse categorie anche per i dipendenti, ma si potrebbe almeno pensare a regole che richiedano alle società quotate la pubblicazione di informazioni sulla diversity della forza lavoro, in particolare per l’alta dirigenza, nella relazione annuale sul governo societario.

(* Questo scritto è dedicato alla memoria di mia zia, Laura Ventoruzzo, recentemente scomparsa, e alle molte donne come lei che hanno perseguito con onestà, determinazione e passione i propri obiettivi professionali).