Società

Immigrazionismo: industria della solidarietà, globalizzazione della miseria

Prima parte: dobbiamo imparare sia ad accogliere che a respingere

Da tempo il senso comune progressista è irreggimentato entro una serie di postulati immigrazionisti: i migranti sono risorse e un modello positivo di umanità futura; accogliere tutti è un dovere di solidarietà nonché un onere espiatorio rispetto ai peccati del colonialismo; chi non è totalmente d’accordo o è vittima di paure irrazionali o è uno spregevole razzista. Sottovoce qualcuno si consola nell’idea che tanto chi sbarca è soltanto di passaggio verso altri paesi europei, accomodandosi in una forma tanto involontaria quanto poco onorevole di sindrome Nimby applicata a questi flussi umani. Così, che si tratti di migranti economici o di rifugiati – per quanto sfocata e simulata sia questa distinzione – in ambito progressista avvicinare alla parola ‘migrazioni’ quella ‘sostenibilità’ è tabù.

La propaganda immigrazionista basa molto del suo consenso sulla spettacolarizzazione del dolore, ma, per mantenere il suo regime di verità, ha bisogno di rimuovere dall’immaginario collettivo qualsiasi manifestazione che esibisca l’insostenibilità dei flussi migratori. Pertanto, qualche giorno di assembramento di migranti-rifugiati in varie stazioni (a Roma, a Milano e non solo) ha causato un disvelamento pericoloso. Non solo gli spregevoli xenofobi di destra (gli unici verso i quali è lecito usare un lessico razzista!), ma anche i cittadini variamente “di sinistra”, messi di fronte all’evidenza, dopo essersi chiesti: “Ma questo schifo significa accoglienza?”, iniziano sempre di più a capire che la situazione è fuori controllo; e approdano a una consapevolezza banale, seppellita sotto anni di propaganda immigrazionista: non potremo accogliere tutti.

Per questo, contro il rischio della diffusione di una simile presa di coscienza, è scattato un piano immediato: sgomberare le stazioni, diffondere ramanzine governative che derubricano qualsiasi ragionevole preoccupazione al rango di panico insensato e miserabile egoismo (minacciando con la solita accusa di razzismo chiunque osi dubitare), spostare l’attenzione verso le risse contro l’Europa egoista e ipocrita e contro i mostri xenofobi di casa nostra.

Resta però il fatto che, in una prospettiva di lungo termine, non riusciremo ad accogliere tutti gli esseri umani che desiderano venire qui, perché nemmeno l’Europa intera basterà. Bisogna rendersi conto che per i prossimi decenni questo flusso epocale sarà un fenomeno permanente, e, se non s’interverrà in modo drastico, in crescita continua. Per cause prevalentemente loro (generate, soprattutto nel lungo termine, dal motore primo di un aumento catastrofico della popolazione che ci ostiniamo a rimuovere dai discorsi sulla contemporaneità), per cause variamente condivise di guerre e carestie, e per causa prevalentemente nostra, in quanto questo flusso lo abbiamo fomentato con politiche e poetiche dell’accoglienza che si sono diffuse nell’immaginario di quei luoghi, trasformandosi in un fattore di spinta. Una spinta che eccede le possibilità europee di accoglienza; limitate da uno spazio già congestionato, da mettere, appunto, in relazione all’iperbolica sproporzione demografica e natalistica tra i luoghi di partenza e quelli di approdo. Un fenomeno eccedente rispetto al miope auspicio ottimistico che le migrazioni possano pacificamente colmare un nostro calo demografico (un male che comunque non si è mai voluto curare con incentivi sociali). Un fenomeno storicamente inedito, con buona pace per la filippica del “siamo stati emigranti anche noi”.

Teniamo a mente che, mentre la parola “rifugiato” è diventata il “cavallo di Troia” per imporre un’etica dell’accoglienza incondizionata, i rifugiati sono una parte minima di queste persone. Poi, se per qualcuno tutti i migranti sono rifugiati, nei fatti tutti i rifugiati anelano a diventare immigrati. Il rischio è che questi kamikaze delle migrazioni – che, spesso oltre il “non avere altre possibilità”, si buttano in mare su dei colabrodi coartandoci a una solidarietà che dentro miopi agoni politici nostrani andiamo sbandierando come genuina – ci porteranno a un suicidio sociale in nome dell’ospitalità assoluta. Siamo in un’ufficiosa e grottesca dittatura dell’accoglienza che ci fa credere che la parola maestra ‘integrazione’ possa significare far arrivare migliaia e migliaia di disperati riducendoli a materia prima per la deleteria industria della solidarietà.

Inoltre va compreso che l’insostenibilità attuale di questi approdi quotidiani dipende dal fatto che in Europa non c’è lavoro a sufficienza, perché, molto banalmente, se siamo arrivati a picchi che sfiorano i 5000 sbarchi al giorno, non abbiamo, al giorno, 5000 posti di lavoro in più (e ricordiamoci, a proposito dell’assurdità del paragone tra le migrazioni odierne e quelle passate, che qui, da molti anni, ogni giorno i posti di lavoro diminuiscono). Dopo che la globalizzazione neoliberista ha sfigurato l’Europa del lavoro trasformandola da luogo di produzione a luogo di consumo, i corpi dei migranti servono oggi al capitolo finale di questa tragedia del consumo, quello dell’industria della solidarietà.

Di fronte a questo disastro, l’Italia ha bisogno dell’Europa e, soprattutto, l’Europa ha bisogno dell’Onu. Invece ovunque regnano ipocrisia e indifferenza. Nel breve periodo questo flusso dovrebbe essere gestito dall’Onu soprattutto laddove si forma, approntando dei campi profughi in loco, costi quel che costi. Nel medio periodo dovremmo smetterla concretamente con il perdurare di sotterranee politiche coloniali che producono sfruttamento, disgregazione sociale e risentimento antioccidentale. In una prospettiva a lungo termine dovremmo fare in modo che le donne del Sud del mondo si emancipino dal loro status – tribalmente imposto – di oggetti per la riproduzione, e passino nel più breve tempo possibile dal fare quasi sei figli ciascuna (la media africana) a due o tre. E, prima possibile, dobbiamo correggere l’immaginario diffuso nei luoghi di partenza, dove milioni famiglie, mediaticamente inebriate da un mito della migrazione come arricchimento, premono per mandare uno dei loro troppi figli qui, a caccia di soldi da rispedire in Africa per il parentado.

Si tratta di affondare la chimera migratoria, facendogli capire che, nella loro ricerca di salvezza e felicità, devono e possono sforzarsi e rischiare la vita non tanto per fuggire, ma soprattutto per migliorare i loro luoghi (da mali che non derivano solo dall’Occidente ma, per molti versi, dalle loro culture). Non c’è nessun “palo della cuccagna”, lo devono sapere: in Europa non ci può essere spazio per tutti. Per questo, al fine di scoraggiare le pulsioni migratorie, oltre a una dolorosa ma necessaria politica di rimpatri e respingimenti, andrebbe approntata una strategia culturale orientata a correggere la percezione del Nord del mondo che si è propagata a macchia d’olio nei paesi del Sud del mondo, soprattutto con la diffusione dei media digitali dell’ultima generazione.

Dobbiamo accoglierne molti, finché possiamo, forse più di quanti ne accogliamo ora in malo modo; ma, realisticamente – se non vogliamo cadere nella trappola di una globalizzazione della miseria – dovremo respingerne ancora di più. Sarà difficile e doloroso, ma una cosa è certa: per quanto si provi a nasconderlo, questo schifo non è accoglienza. Per questo dobbiamo imparare, prima che sia troppo tardi, sia ad accogliere che a respingere.

Continua…