Cultura

‘Voci di famiglia’ di Harold Pinter, le mani nel fango della famiglia

Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro. Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” (Lev Tolstoj)
La famiglia è uno stato che riceve autorità dalla noia, dalle convenienze e dalla paura di morir soli in casa” (Leo Longanesi)

Harold Pinter meglio di ogni altro ha descritto la distruzione sottile, la polvere cattiva che si annida non tanto nella famiglia, parola vuota in sé, ma quanto nei rapporti che si incarogniscono e si avvizziscono e si arrugginiscono con il passare del tempo tra appartenenti allo stesso ceppo, costretti, dal sangue che scorre nelle proprie vene, per lunghi anni a viversi accanto, sopportarsi, vedersi, parlarsi. Mangiare i silenzi. Mordere il tempo grigio delle quattro pareti. Perché è su costrizione e coercizione, su regole e doveri che si basa la costruzione di quel nucleo che niente più, oggi, ha a che vedere con il focolare, con i Lari tutelari, con il rifugio, con la tana. Si creano nel tempo fazioni e ricordi, vendette e traumi da portare avanti con il sostegno di una memoria che filtra il negativo con il positivo, l’avena con la gramigna, eccitando ed esaltando la seconda, ammassando polaroid e sorrisi di convenienza e convivenza. Tra le mura domestiche nasciamo, impariamo ma veniamo anche imbevuti nell’imprinting di sovrastrutture, atteggiamenti e comportamenti difficili da sradicare.

Pinter ha affondato le mani nel fango della famiglia, ha affossato i denti nella melma della carne marcia di quest’istituzione moribonda e caracollante che continuamente alcuni tentano di salvare con iniezioni di cattolicesimo. Dario Marconcini, dopo Il silenzio affrontato lo scorso anno, si gioca la nuova carta pinteriana, molto meglio riuscita rispetto alla prova precedente, della prima nazionale delle “Voci di famiglia” (non certo “Voci di dentro” eduardiane), un dittico madre e figlio che si scrivono a distanza senza mai incontrarsi fisicamente né in uno sguardo, ognuno sul suo binario morto, senza interazione, con, sullo sfondo, l’ombra del padre sempre presente e sempre assente, come nelle migliori tradizioni, un’ombra avvolgente che pare ingoiarsi gli altri due componenti, che pare allargarsi fino a diventare un tutto con la pece della morte.

La madre (una Giovanna Daddi sempre grande signora del teatro toscano), in un abito a fiori verde marcio prossimi alla decomposizione che fanno rima con la carta da parati fino a scomparirne dentro, chiusa in una struttura razionalista e simmetrica e dietro un velato che sa di passato (non certo di nostalgico, la nostalgia è quel giallo pallido che ha insito tristezza e dolcezza dei tempi passati; qui si ha solo voglia di dimenticare e di voltare pagina) racconta al figlio assente, al fantasma della figliolanza, che qui ha generato rimpianti e lasciato in eredità lacrime e incomprensioni, la sua vita senza lui, quello che sente, quello che avrebbe potuto essere. Fuori dal tessuto trasparente che tratteggiava la madre allontanandola, già proiettato verso un rosa/rosso tenue e maledetto, il figlio (una bella scoperta Emanuele Carucci Viterbi) su un divano salottiero, quasi triclinio romano di ozio e poche virtù, non racconta ma ciarla del suo tempo immerso in sciocchezzuole, in infime amenità, in piccole e inutili attività da camera. Non dialogo ma due monologhi, anzi telegrammi, furtivi, cagionevoli, di soppiatto, senza calore né pathos. Rette parallele che mai più s’incontreranno.

In questo sembra ci sia anche una critica feroce di Pinter verso le nuove generazioni (il testo è del 1980, rappresentato solo in forma di radiodramma) che non riconoscono la fatica dei genitori nel costruire dal nulla un nuovo organismo senza conoscerne i limiti, le potenzialità, anche nefaste. Nelle parole del figlio si nasconde una certa finta serenità di fondo, o meglio una voglia di parlare soltanto del superficiale per non incappare nelle infelicità dell’analisi del reale, nella tragicità della consapevolezza o del posizionarsi all’interno dello schema della vita che, bene o male, ci siamo ritagliati addosso. La madre, potremmo osare madrecoraggio (inevitabile per contrapposizione la vicinanza alla pellicola Mia madre di Nanni Moretti), ora paziente concede, come la fioca lampadina giallognola che le cola sulla testa tra la minaccia e la miseria, adesso è irosa e lancia anatemi alla negligente prole che ha cercato di dimenticarla cavalcando nuove strade. Hanno anime nere, non si salveranno, sono acidi e caustici, ci fanno orrore, danno inquietudine, scompenso e brividi; ma questi personaggi sono reali, vivi, non sono letteratura, con quella dose sotto pelle di cattiveria calcolata, normale e ben confezionata, vagamente confusa con un ibrido tra il sano egoismo e il non affondare. Dopotutto lì è il nostro Big Bang personale, lì è la fine: “Abbiamo ricevuto dalla nostra famiglia le idee di cui viviamo così come la malattia di cui moriremo”, scandiva Marcel Proust.

Visto al Teatro Francesco Di Bartolo di Buti (Pisa) il 23 aprile 2015