Televisione

25 aprile, la Liberazione del vocabolario: in un doc su History il fascismo e le parole straniere

Nel giorno del 70esimo in onda sul canale Sky "Me ne frego!": i timori del regime nei confronti dei termini esotici e per difendere (a volte in modo ridicolo) l'italiano. L'autrice, la linguista Della Valle, a ilfatto.it: "Tra gli obiettivi del Duce c'era quello di costruire i nuovi italiani che si servissero di una lingua pura". Così Renato Rascel diventò Rascelle

Settanta anni fa diventava più libero anche il vocabolario. Cinque anni prima, infatti, con la legge 2042 del 23 dicembre 1940, il fascismo vietò l’uso delle parole straniere. “Ti ho visto fiorellare con una brillante alla mescita, avete bevuto un arlecchino e ballato lo slancio” avrebbe dovuto dire una ragazza gelosa al suo fidanzato, se non avesse voluto incorrere in una multa o nell’arresto per aver detto “ti ho visto flirtare con una soubrette al bar, avete bevuto un cocktail e ballato lo swing”. Perché il Duce temeva le parole straniere? E cosa resta oggi dell’esperimento linguistico del regime, che italianizzò i termini esotici in modi che oggi fanno sorridere? Lo racconta, il 25 aprile alle 21 su History Channel (canale 407 di Sky), il documentario Me ne frego! Il fascismo e la lingua italiana, diretto da Vanni Gandolfo. Filmati inediti dell’Istituto Luce ripercorrono la xenofobia linguistica, uno tra gli aspetti meno violenti del ventennio, ma tra i più pervasivi. Ilfattoquotidiano.it ha intervistato l’autrice del documentario, la linguista Valeria Della Valle, docente alla Sapienza di Roma.

Si voleva raggiungere l’autarchia anche per la lingua, è così?
Sì, tra gli obiettivi del fascismo c’era quello di costruire i nuovi italiani, che si servissero di una lingua pura, priva di parole straniere ed elementi dialettali. Le persone romanamente dovevano darsi del voi e non del lei, le minoranze linguistiche andavano represse: sloveni, valdostani, altoatesini, ladini dovevano italianizzarsi e rinunciare per decreto alla propria lingua. Le parole straniere furono sostituite da neologismi stabiliti dalla commissione dell’Accademia d’Italia, che raccoglieva la migliore intellighenzia del tempo. Alcuni neologismi, coniati dal grande linguista Bruno Migliorini, hanno avuto molto successo: “autista” al posto di chauffeur e “regista” al posto di registreur. Altri erano decisamente più buffi: “parchetto” al posto di parquet, “pan tosto” al posto di toast.

La gente stava attenta a pronunciare le parole giuste per il rischio di delazione?
Nelle occasioni pubbliche e in tutti i luoghi in cui ci si sentiva osservati, le persone stavano attente a usare solo parole italiane, a dare del voi e non del lei. I negozi si guardavano bene dall’avere insegne con parole straniere: erano previste delle multe e in teoria il carcere, anche se non si sa se qualcuno sia mai stato messo in prigione per delitti linguistici. Gli attori furono obbligati a italianizzare i loro nomi. Renato Rascel divenne per un periodo Renato Rascelle. Wanda Osiris? Vanda Osiri. Il dialetto fu estromesso dalla scuola, ma in privato le persone continuarono a parlarlo.

Finita la guerra, tornarono le vecchie parole?
Appena finita la guerra c’è stata una specie di bulimia di parole straniere, soprattutto inglesi. Ancora adesso ci sono tante polemiche sul loro eccesso nella lingua italiana. Le minoranze linguistiche hanno reagito con tentativi di autonomia e espressioni usate da Mussolini per far presa sulla folla sono scomparse, oggi i giovani non sanno neanche cosa significhino. Penso, per citarne alcune, a “colli fatali”, “le spade lucenti” e “me ne frego”, motto di D’Annunzio che i fascisti hanno usato come slogan. Oramai sono usate solo scherzosamente.