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Spending, sugli statali qualcosa si muove. Ma il risparmio è una goccia nel mare

Il decreto Madia dello scorso agosto e il disegno di legge sulla pubblica amministrazione in discussione al Senato recepiscono una parte delle proposte del gruppo di lavoro sul pubblico impiego. Sì alla mobilità obbligatoria entro 50 chilometri e licenziabilità per violazioni disciplinari gravi. Però il governo continua a rimandare la riduzione organica della spesa per gli stipendi

La rivincita di Carlo Cottarelli, a un primo sguardo, sta tutta nella riforma della pubblica amministrazione. Se la maggior parte delle proposte messe a punto dagli esperti coordinati dall’ex commissario alla spending review è stata archiviata, perché affondava troppo in profondità il bisturi in comparti cari alla “casta” centrale e locale, sul fronte del pubblico impiego qualcosa si sta muovendo. Le novità più rilevanti riguardano gli statali. Per capirlo occorre leggere e confrontare il rapporto del gruppo di lavoro che si è occupato del comparto, il decreto Madia diventato legge lo scorso 7 agosto e il ddl sulla pa che si appresta ad arrivare in aula al Senato. Senza dimenticare il Jobs Act che, come è noto, fa salvo il pubblico impiego dalla rottamazione dell’articolo 18. La conclusione è che il governo Renzi sta mettendo in campo diverse norme che vanno nella direzione auspicata dal team di Cottarelli, ma dalla loro attuazione deriveranno risparmi per “soli” 500 milioni all’anno, una goccia nell’oceano degli 800 miliardi di spesa pubblica italiana. L’unica vera sforbiciata è infatti quella agli stipendi dei dirigenti, per i quali lo scorso anno è stato fissato un tetto di 240mila euro. Ma i risparmi sul resto del costo del lavoro restano una grande incompiuta.

Le proposte del gruppo: mobilità, licenziamenti e contenimento della spesa – Le proposte avanzate dal gruppo sul pubblico impiego, coordinato dal dirigente della presidenza del Consiglio Antonio Naddeo, ruotano intorno a una maggiore mobilità dei lavoratori, alla revisione della disciplina dei licenziamenti e al contenimento della spesa per gli stipendi. Il raggio di azione degli interventi è triplice: si va dalle misure di breve termine “a operatività tendenzialmente immediata” a quelle di carattere più generale mirate a risolvere “problematiche strutturali della mobilità nel pubblico impiego”. Nel primo capitolo si auspica che la mobilità obbligatoria sia potenziata limitando la facoltà delle amministrazioni con “buchi” nell’organico di rifiutare l’assegnazione di personale che arriva da altre articolazioni della pa e prevedendo la cessazione dal servizio – leggi licenziamento – per chi rifiuta di trasferirsi. Quanto alla mobilità volontaria, la richiesta è di “migliorare le forme di pubblicità sui posti disponibili”, pubblicando un elenco dei posti vacanti sul sito del dipartimento della Funzione pubblica. Il tutto, ricorda il gruppo, richiede la predisposizione di una “tabella di equiparazione” che renda confrontabili inquadramenti e livelli retributivi. Infine, per facilitare la gestione degli esuberi vengono proposti interventi sulla mobilità in uscita: revoca dei trattenimenti in servizio, pensionamenti sulla base dei requisiti (meno stringenti) che vigevano prima della riforma Fornero e uscite anticipate, con uno “scivolo”, fino a cinque anni prima dell’età di uscita dal lavoro.

Nel decreto Madia l’obbligo di accettare il trasferimento entro 50 chilometri – Su tutti questi punti il governo si è già mosso o sta lavorando. Il decreto Madia dell’estate scorsa ha introdotto l’obbligo per gli statali di accettare il trasferimento nella stessa o in altre amministrazioni in un raggio di 50 chilometri dalla sede in cui lavorano. La legge dispone anche gli enti della pa possano, d’ufficio, mandare in pensione anticipata chi ha raggiunto i requisiti, cioè 62 anni di età, 41 anni e 6 mesi di contributi per le donne e 42 anni e 6 mesi per gli uomini. Lo scorso febbraio una circolare attuativa del decreto ha poi abolito la possibilità di rimanere in attività per due anni anche una volta raggiunta l’età della pensione, revocando anche i trattenimenti in servizio già accordati ma non ancora efficaci al 25 giugno 2014. Unica eccezione i magistrati, per i quali la novità entra in vigore solo dal 2016.

Sulla carta licenziare si può – Per quanto riguarda la licenziabilità, dopo aver escluso i dipendenti pubblici dall’applicazione del Jobs Act l’esecutivo ha però messo nero su bianco nel ddl pa che nei casi più gravi di responsabilità disciplinare la sanzione sarà proprio il licenziamento. Resta da vedere se l’indicazione si tradurrà in pratica. Nel dossier si legge infatti che “il problema vero” è “rappresentato dalla ritrosia del management a ricorrervi come strumento fisiologico di gestione del personale”. Quanto al trasferimento da un ente all’altro, l’abolizione delle province prevista dalla riforma Delrio e i conseguenti 20mila esuberi hanno imposto un’accelerazione, anche se la partita è ben lontana dall’essere conclusa. Nei giorni scorsi il ministero della Pubblica amministrazione e quello dell’Economia hanno preparato le famose tabelle di equiparazione con l’obiettivo di consentire il trasferimento di chi è rimasto “in bilico” in amministrazioni a corto di personale, a partire dagli uffici giudiziari. Il 2 aprile è previsto un confronto con i sindacati. Seguirà un decreto ad hoc sui criteri di ricollocazione e il trattamento economico del personale trasferito. A essere in ritardo sono alcune Regioni, che non hanno ancora legiferato sul passaggio delle funzioni e presentato le liste dei “soprannumerari”, cioè i dipendenti per cui non c’è posto che dovranno dunque passare ad altre amministrazioni. Il 23 marzo poi sul sito del dipartimento della Funzione pubblica, come auspicato nel dossier, è stato pubblicato un applicativo per la gestione del personale in esubero: gli enti dovranno inserirvi tutte le informazioni su dotazione organica, posti che si renderanno vacanti e fabbisogni.

In alto mare i fabbisogni standard di personale – Più in alto mare le altre misure di breve termine proposte dal gruppo di lavoro. Non c’è traccia per ora della determinazione dei fabbisogni standard di personale. In compenso nel ddl pa ci sono nuove norme sui concorsi pubblici che vanno nella direzione delle procedure di stabilizzazione dei precari prefigurate dagli esperti. Nel dossier si ventilava poi la possibilità di riservare a soggetti in mobilità e precari la metà dei posti da coprire tramite concorso. Nel disegno di legge questo viene in parte recepito prevedendo una riserva del 50% per coloro che già lavorano nella pa e sperano nella stabilizzazione.

Nel ddl pa la riforma della carriera dirigenziale – Il paragrafo del dossier dedicato alle misure di medio-lungo termine si concentra infine su responsabilità dei dirigenti, riduzione della variabilità del trattamento economico e contenimento della spesa per stipendi. Sul primo fronte il ddl pa rivoluziona sia l’accesso ai posti dirigenziali sia la progressione di carriera: le sorti professionali di chi ha ruoli di gestione saranno più legate alla valutazione e all’accuratezza con cui misurerà le performance dei lavoratori che coordina. Via libera poi al ruolo unico dirigenziale a cui lo Stato attingerà per coprire le poltrone vacanti. Scompaiono dunque le fasce differenziate, anche se non è chiaro quanto questo possa essere funzionale alla riduzione dei costi.

Ma il governo rimanda il nodo della riduzione della spesa – I costi, appunto. Nel documento del team Cottarelli si legge che tra 2003 e 2010, “a fronte di una diminuzione del numero complessivo dei dipendenti”, la spesa delle amministrazioni per redditi da lavoro è salita di 27,3 milioni, “con un tasso di crescita annuo del 2,5 per cento”. Un’inversione di tendenza si è registrata a partire dal 2011 ma solo grazie al congelamento dei trattamenti economici, prorogato anche al 2015. “Misure di emergenza” che, si legge, “non sembrano sostenibili in condizioni economiche normali”. Sarebbe quindi auspicabile “predisporre una strategia per la gestione della fase post-crisi”, attraverso “analisi e mappature” al fine di “individuare le effettive cause della lievitazione” e “gli opportuni correttivi, come la modifica del calcolo di alcune voci e un maggiore allineamento con il settore privato”. Risultato? Dopo che il Dl Irpef, nell’aprile 2014, ha fissato un tetto massimo di 240mila euro per i dirigenti, rimandando al futuro la definizione di limiti più bassi a seconda della tipologia di incarico, non si è mossa foglia. Ora, un anno dopo, il ddl pa rinvia ancora la patata bollente ai decreti attuativi.