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Elezioni in Israele, il ‘sionismo’ ha un nuovo significato?

ISRAEL-TEL AVIV-ELECTION-CENTER-LEFT ALLIANCEChi sa cosa sogna Bibi Netanyahu alla vigilia delle elezioni israeliane? Una nuova vittoria evidentemente. Oggi, martedì 17, si aprono i seggi per le elezioni anticipate in Israele, dopo lo scioglimento del governo a seguito di una forte crisi di fiducia con i ministri delle Finanze Yair Lapide e quello della Giustizia Tzipi Livni, appartenenti a due partiti centristi. Si tratta di Yesh Atid (C’è un futuro) e ha-Tnuah (Il movimento), con cui Netanyahu aveva originato una crisi dell’esecutivo con l’obiettivo di spostare il governo ulteriormente a destra, creando una nuova coalizione con l’estrema destra nazional-religiosa della Casa ebraica e i partiti religiosi ultraortodossi.

Il terzo governo Netanyahu si è così dimesso, in un momento in cui a dividere le forze della coalizione sono stati il fallimento dei negoziati coi Palestinesi, l’esito inconcludente della recente guerra a Gaza (l’operazione Margine protettivo) e la crisi economica del ceto medio, dovuta al sensibile aumento del costo della vita, già all’origine delle rivolte sociali del 2011.

Tuttavia, da quando ha sciolto il governo a dicembre fino ad oggi, gli equilibri politici in Israele si sono modificati in senso sfavorevole al Premier: il partito laburista, da anni in netto calo elettorale e senza una leadership autorevole, è stato per la prima volta capace di compattarsi e dare vita a una nuova unione di centro-sinistra, l’Unione Socialista. Yitzhak Herzog, l’erede di una forte dinastia ‘laburista’ e di una famiglia talmente influente in Israele da essere associata ai Kennedy, ha deciso di spostare il suo partito ‘al centro’ (o al centro-destra, secondo alcuni commentatori) operando una fusione strategica con il partito di Tzipi Livni, ha-Tnuah, a sua volta erede di Kadima, partito di Ariel Sharon.

L’Unione Socialista, frutto della riuscita fusione, si presenta dunque come un partito a vocazione maggioritaria, nel senso che riesce ad intercettare e rappresentare la maggior parte delle preoccupazioni espresse dall’elettorato ‘moderato’, ovvero: la ripresa del processo di pace con Abu Mazen, il termine degli incentivi economici governativi alle colonie, la ricerca di una soluzione stabile per Gaza.

Herzog si è fatto portatore di un messaggio politico ‘nuovo’: innanzitutto sottolineando la sua provenienza ‘civile’ e non militare e affermando di voler trasformare Israele in un “Paese normale, calmo, sano”. A suo parere, Netanyahu non avrebbe fatto che esacerbare i problemi del Paese e aggravare le sue inquietudini più profonde. Amplificando la minaccia radicale rappresentata dall’Iran (Herzog sostiene che si tratti di una minaccia reale, ma non esiziale) e continuando a battere sul tasto dell’assenza di un partner palestinese con cui negoziare, avrebbe condotto il Paese in un vicolo cieco di diffidenza ed incomprensione reciproca con i Paesi arabi circostanti.

Herzog si propone, invece, come un leader moderato in continuità con l’eredità del grande Rabin, come l’unico politico israeliano che possa idealmente riprendere le fila di Oslo e rilanciare la politica estera del Paese, ripristinando le buone relazioni con l’amministrazione Obama, ma anche un nuovo negoziato di pace con Abu Mazen. Le questioni economiche che agitano Israele, però – tra cui l’aumento del prezzo degli immobili e degli affitti, già all’origine delle massicce manifestazioni di piazza del 2011 – sembrano rimanere più sullo sfondo dell’agenda politica ‘laburista’. Herzog parla di giustizia sociale, ma con un occhio alla politica estera e alla normalizzazione di Israele nel panorama regionale.

Aldilà delle logiche elettorali e delle forze in campo, vi sono due elementi nuovi in queste elezioni: il primo è l’uso del termine ‘sionista’, che Herzog adotta come sigla del partito al posto di quella tradizionale e al quale cerca di dare una connotazione nuova, sottraendolo alla destra che se ne era appropriata facendolo diventare sinonimo, come sostiene lo storico Zeev Sternhell, di “conquista della terra e di colonizzazione della Cisgiordania”. Di questa necessità di riabilitare il termine ‘sionismo’ nel dibattito politico ne aveva già parlato il celebre giornalista di Ha’aretz Ari Shavit, lanciando un ampio dibattito nella società israeliana con la pubblicazione del suo libro, La mia terra promessa (tradotto anche in italiano).

L’altra novità è la coalizione dei partiti arabi che per la prima volta si presentano con un fronte e una leadership comune. Il suo leader Ayman Odeh ha saputo mettere insieme il variegato e conflittuale mondo degli arabo-israeliani (o Palestinesi d’Israele) con buone chances di diventare, forse, per la prima volta il primo partito di opposizione.