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Italiani all’estero: non chiamateli ‘cervelli in fuga’

La vita di un italiano a Londra, o in qualsiasi altro Stato estero, generalmente è destinata ad essere costellata da uno schema contorto di luoghi comuni, dove la pasta che si ordina al ristorante è scotta, le verdure non hanno lo stesso sapore dell’orto coltivato dalla nonna, il tempo è sempre grigio, le persone sono fredde, i ritmi sono frenetici.

Perché è più semplice, forse, parlare delle differenze che intercorrono fra il Bel Paese e la terra d’Albione a favore della prima, e meno ammettere che talvolta, sebbene in questi luoghi comuni possa esserci un fondo di verità, questi stessi si plasmano ad un nostro innato senso di disadattamento e del nostro essere, geneticamente, un popolo di lamentosi.

Seguendo la logica dei luoghi comuni, questi stessi – me compresa – una volta espatriati, vengono automaticamente etichettati come cervelli in fuga. Non importa la ragione che li ha portati lontano, tutti diranno che sono fuggiti, ed anche noi, col tempo, ce ne convinceremo. Che poi diciamo la verità, tra la fuga di un cervello ed un cervello che si perde è un attimo. C’é chi fugge veramente, perché costretto da licenziamenti, da contratti a progetto non rinnovabili, da condizioni contrattuali sgravanti o che non esistono perché non si riesce a firmarne uno. Ma c’è anche chi sceglie di andarsene di propria iniziativa senza alcun costringimento esterno o morale, essendo comunque destinato ad entrare nel vortice di questa generalizzazione. Nella versione aggiornata della Divina Commedia, Dante ci avrebbe dedicato un girone. Presumibilmente in Purgatorio.

Ogni volta che sento parlare di cervelli in fuga, immagino come la logica dei luoghi comuni possa costruirne il volto. Pallido e scarnito, con occhiali che coprono il viso e la stessa aria un po’ sfigata di Nanni Moretti. Si avvia al gate con gli occhi scavati e la mente che viaggia verso un pensiero ricorrente, perché sono in molti a scriverlo su Facebook: non è coraggioso chi lascia il proprio Paese, ma chi resta per cambiare le cose. Una cosa del genere. E mentre pensa a quanto siano coraggiosi i suoi contatti perché restano su Facebook a scrivere quanto valga la pena restare per cambiare il mondo, dietro lo schermo di un computer o di un cellulare, il cervello in fuga passa tutti i controlli di rito con una valigia, sentendo ancora l’eco delle Sacre scritture dei suoi contatti Facebook: quando parti, la valigia deve essere vuota, per farci entrare dentro tutte le esperienze che porterai con te. Ed invece la tua é piena di salumi, pasta e formaggi, come se dovessi partire per un villaggio sperduto dell’Uganda, pronto a fronteggiare l’eventualità di percorrere venti chilometri per prendere acqua potabile.

Ma a te non importa quello che si dice in giro. Superato il gate ed approdato in terra straniera, l’etichetta di cervello in fuga ti si appiccicherà addosso come una gomma da masticare sotto le suole delle Converse.

E quindi, in quanto cervello in fuga, dovrai sentirti offeso dai tweet di Gasparri e dalla politica anti-immigrazione di Cameron. Queste sono le regole del gioco.

Ma diciamo la verità. Non sono tutti in fuga, né sono tutti cervelli. Ma sia nell’uno, che nell’altro caso, è nostro diritto non essere costretti a scappare, come nostro diritto decidere dove andare.

La differenza tra il Bel Paese e la Gran Bretagna, non si minimizza con il solito luogo comune del tempo sempre grigio, delle corse sfrenate in metropolitana, del vivere per lavorare invece del lavorare per vivere, del cibo che non è come quello di mammà.

Sia gli uni che gli altri, sia che scappano, sia che scelgono di andar via, vanno alla ricerca di possibilità. E la differenza più eclatante non è il dato fattuale del trovarle altrove e non a casa nostra, ma che ad offrirle a noi, giovani o oramai di una certa età, siano giovani, gli stessi che in casa nostra giocano ancora a fare gli studentelli parcheggiati in una qualche università. Quelli che altrove, alla nostra età, ricoprono già ruoli manageriali dopo aver fatto una lunga gavetta, mentre noi, sentendoci vecchi ed inesperti al loro cospetto, in casa nostra ci sentiremo ancora dire che non siamo abbastanza, che siamo piccoli.

L’Italia, fin quando ci sarà ancora ancora il faccione di Berlusconi al telegiornale e Gasparri che twitta, è un Paese per vecchi. Per questo noi ce ne andiamo. Costretti, spontaneamente o per tutte e due le ragioni.

Ma non chiamateci cervelli in fuga. Sono loro che non ci vogliono. Lo fanno in silenzio e non lo ammetteranno mai.

Come diceva qualcuno: le parole sono importanti.

di Antonia Di Lorenzo

(Scrive di Londra anche qui http://ilnuovo.me/category/qui-londra/, sul suo blog personale http://antoniadilorenzo.blogspot.co.uk ed in inglese sulla piattaforma Readwave http://www.readwave.com/antonia.di.lorenzo/stories/)