Cultura

Emmanuel Carrère, ‘Il Regno’ dei paragoni azzardati

Se Carrère sceglie di scrivere un libro sulle origini del cristianesimo come Il Regno (trad. di F. Bergamasco, Adelphi) dietro c’è qualcosa. Lui dice: “Scrivo questo libro per cercare di non essere troppo d’accordo con me stesso”. Per certi aspetti è vero: Carrère è uno che aspira a provocare soprattutto se stesso, come tutti i provocatori intelligenti. Ci racconta che per tre anni (90-93) è stato credente (e da bravo ossessivo anche osservante oltre il dovuto). Ma non bisogna fidarsi troppo dell’autofiction, per quanto la storia della sua conversione sia esilarante (i capitoli sulla baby-sitter sono favolosi).

Forse la vera motivazione sta in altre righe: “Quando mi raccontano una storia, mi piace sapere chi me la sta raccontando. Per questo mi piacciono le narrazioni in prima persona, per questo scrivo così, e anzi non sarei capace di scrivere in altro modo”. E, anche se il Limonov della situazione è San Paolo, il libro in fondo non è su di lui. A un certo punto se lo lascia proprio scappare: “Sette anni a scrivere questo libro su Luca”, dice. Ammette che quello che davvero gli interessa è raccontare come è stato un scritto un Vangelo. Carrère si identifica con Luca, lo affronta da narratore a narratore, senza la minima remora. Perché averne: sul piano dello sporco lavoro della scrittura, del reportage o della biografia, in fondo può capirlo meglio lui di qualunque esegeta. E’ una questione di esperienza e di empatia fra scrittori, e basta. Per esempio ricorda com’è nato Vite che non sono la mia (“Ero stato testimone di qualcosa che doveva essere raccontato, e toccava a me farlo, e a nessun altro”) e a partire da un sentimento comune, che conosce, cerca di ricostruire le domande che si può essere fatto un medico macedone mentre scriveva le sue, di biografie (su Gesù e su San Paolo, ovvero un Vangelo e gli Atti degli Apostoli). Dopotutto Luca, per quando figura sbiadita, nella sua follia è più acuto di Flavio Giuseppe, che racconta tutto sulle guerre e guerriglie giudaiche, bucando la notizia principale del suo tempo, cioè “l’affaire Gesù”. “È questa la scelta di Luca, l’impresa in cui si è, letteralmente, imbarcato, e mi chiedo se una volta a bordo non lo sfiori il sospetto di star facendo un’enorme cazzata”.

Il tono non deve stupire: la genialità di questo libro sta proprio nei paragoni azzardati. Per cercare di capire che effetto poteva fare Paolo quando diceva che Gesù era morto in croce, sposta brutalmente il contesto: “È come se ci dicessero che il salvatore del mondo non solo si chiama Gérard o Patrick, ma è stato anche condannato per pedofilia”. Le lettere di Paolo funzionano come i bollettini che inviava Lenin prima del 1917. Ponzio Pilato tratta gli ebrei come Sharon i palestinesi dei territori occupati. E quando Tito rade al suolo Gerusalemme non è tanto diverso da Putin che, in Cecenia, ordina ai suoi “di inseguire i terroristi fin dentro i cessi”.