Cucina

Gino Fabbri, tra i più grandi pasticceri del mondo: “Expo? Mi auguro non sia un’occasione persa”

Presidente dell'AMPI – Accademia Mastri Pasticceri Italiani – che, a Lione, Fabbri ha vinto l'ultima Coupe du Monde de la Pâtisserie: "Spesso siamo noi i primi, e non i cinesi, a rovinare le nostre eccellenze. L'immagine del pistacchio di Bronte, ad esempio, è stata rovinata dagli stessi di Bronte, comprando pistacchi iraniani o turchi"

Gino Fabbri è certamente tra i più importanti mastri pasticceri d’Italia, e ora anche del mondo. È infatti presidente dell’AMPI – Accademia Mastri Pasticceri Italiani – che, a Lione, ha vinto l’ultima Coupe du Monde de la Pâtisserie. Fabbri, che a breve sarà anche insignito dalla città di Bologna della Turrita d’Argento, ci racconta del titolo mondiale, dell’importanza dei prodotti italiani e delle sfide che aspettano il mondo della pasticceria e dell’enogastronomia.

Quando è nata la sua passione per la pasticceria?
Ho iniziato per necessità nel 1965, avevo quindici anni. La passione vera e propria nacque quando tornai dal militare. Fu allora che cominciai a vedere questo mestiere sotto una luce diversa e inizia a fare veri e propri prodotti di pasticceria.

A Lione, lei e la sua squadra, avete vinto la Coupe du Monde de la Pâtisserie. Come vi siete preparati e in cosa consiste la sfida?
L’avventura è iniziata con il Sigeb di Rimini del 2014 dove sono stati selezionati i tre giovani pasticceri che avrebbero gareggiato: Forcone, Boccia e Donatone. Furono poi loro a chiedermi, in qualità di Presidente dell’Accademia, di essere allenati da me, Massari e Dal Masso. I due colleghi avevano già partecipato alla Coupe du Monde mentre io, nel 2013, avevo già fatto da allenatore. Inizialmente ero perplesso perché i tre ragazzi selezionati erano sì bravissimi, ma avevano caratteri molto difficili e sapevo quanto impegnativa e faticosa fosse la competizione. Mi convinsi solo quando Massari mi disse che lui e Dal Masso avrebbero accettato solo se ci fossi stato anch’io. Formata la squadra abbiamo iniziato gli allenamenti: i ragazzi hanno sudato sette camicie; non ci andava mai bene nulla. Ma sono stati proprio gli allenamenti a fare la differenza il giorno della gara. In dieci ore abbiamo dovuto presentare tre pièce artistiche: in zucchero, in cioccolato e in ghiaccio. Ognuna doveva essere accompagnata da un dolce specifico: quella in cioccolato da un dolce al piatto, quella in zucchero da una torta al cioccolato e quella in ghiaccio da una torta gelato. Come tema abbiamo scelto Peter Pan e realizzato Trilli in ghiaccio, Peter Pan in cioccolato e Capitan Uncino in zucchero. Vincere è stata una grande soddisfazione anche perché, a differenza di altri concorsi – come in America dove vince solo chi ha i soldi –, il regolamento e il meccanismo di votazione sono complessi e molto severi.

Avevate qualche rappresentante delle istituzioni a sostenervi nella finale di Lione?
Tocca un brutto tasto. Dico solo questo: le altre nazioni l’avevano, l’Italia non aveva nessuno. Anche in altri importanti concorsi mi è successo lo stesso: gli altri avevano i loro consoli e ambasciatori, noi nessuno. Non abbiamo mai avuto nessuno delle istituzioni al nostro fianco. Questo mi ha sempre amareggiato molto.

L’Italia fa abbastanza per promuovere il proprio patrimonio enogastronomico?
Noi a Lione abbiamo vinto perché abbiamo usato solo prodotti italiani. Che il pistacchio sia di Bronte o la nocciola sia del Piemonte o di Viterbo, non è un problema; le varietà italiane sono tutte ottime. Abbiamo prodotti eccellenti, ma manca la spinta e forse anche la volontà da parte delle istituzioni nel promuoverli. È anche vero che molto spesso siamo noi i primi, e non i cinesi, a rovinare queste eccellenze. L’immagine del pistacchio di Bronte è stata rovinata dagli stessi di Bronte, comprando pistacchi iraniani o turchi e vendendoli come pistacchi di Bronte. I primi falsificatori siamo noi stessi, ma dovrebbe essere proprio la politica a prendere in mano la situazione.

Come ha influito la globalizzazione sull’alta pasticceria?
È cambiato tutto: pancake, cupcake, cheesecake; questa è la globalizzazione, un processo che ha fatto sì che questi dolci vengano ormai sentiti come nostri. Si aggiunga che vengono presentati in modo pessimo: i prodotti italiani, che vogliono scimmiottare quelli americani o inglesi, sono la cosa peggiore che abbia mangiato. Questi prodotti sono stati introdotti con i semilavorati. Senza la globalizzazione non sarebbero arrivati semilavorati con idrogenature, surrogati e altre schifezze. Il concetto di prendere un composto già lavorato, metterlo in forno, e farne uscire un cheesecake è assurdo. È inconcepibile che il cibo possa ridursi a questi livelli; sarebbe come, per noi, mangiare tortellini liofilizzati a New York. Diciamo tanto che là si mangia male, ma noi riusciamo a fare peggio. Io, per esempio, ho messo in lista i macaron solo dopo un periodo di stage con un mio collega francese. Per poterli fare mi son rimesso in gioco – al tempo dello stage, avevo 55 anni.

Nei giorni scorsi è uscita la notizia che avrebbe lasciato il Mercato di Mezzo – spazio che propone eccellenze enogastronomiche, recentemente inaugurato nel centro di Bologna – si sono poi rincorse voci di smentita. Ci può aiutare a fare chiarezza?
Il Mercato di Mezzo ha le sue problematiche, e mi auguro possano essere risolte. Noi continuiamo ad essere in società e presenti all’interno. Con un giornalista dissi che ne era uscita mia figlia perché, l’anno scorso, non tutto convergeva nel portare avanti il discorso. Da lì a dire che io son venuto via, ce ne passa: io ci sono. Credo che il Mercato di Mezzo sia anche un’esperienza nuova per Bologna, un’esperienza che farà sicuramente discutere, l’importante è non ripetere gli stessi errori; tutto si può migliorare, anche il mio locale.

Quali sono queste problematiche?
Penso sarebbe stato più opportuno incentrarlo sulla promozione del prodotto di nicchia, come ho visto a Barcellona o in altri paesi. Quando si ricreano le funzioni che avevano gli antichi mercati penso si debba incentrare il discorso su prodotti territoriali ed esclusivi. Ad esempio: eccellenze come la pasta fresca e la mortadella – esclusivamente di Bologna.

In che forma lei e l’Accademia dei Maestri Pasticceri Italiani parteciperete all’Expo di Milano?
L’Accademia ha attivato una sinergia con Eurochocolate; da soli non abbiamo abbastanza risorse, non tanto economiche quanto mediatiche. Tutti i lunedì di Expo, molto probabilmente, saremo sul Decumano a fare esposizioni e presentazioni di dolci. Personalmente invece son già stato interpellato per diverse consulenze; ma, dal momento che non è ancora chiaro cosa verrà fatto, da parte mia è difficile proporre qualcosa di specifico. La mia risposta è stata: “se mi dite cosa devo fare, posso dirvi se posso farlo”. Purtroppo l’Expo non è ancora ben chiaro; si farà, ma non so ancora bene che cosa.

L’ultima critica all’Expo è arrivata dall’Assessore Ronchi del Comune di Bologna. Lei confida nella riuscita?
Sono positivo. Fosse come dice Ronchi, daremmo una brutta immagine e andremmo a peggiorare ulteriormente la situazione dell’Italia. Sarebbe assurdo e controproducente non avere un occhio di riguardo per una manifestazione che, ovunque sia stata fatta, è sempre stata un’eccellenza. Noi l’abbiamo voluta, non possiamo gettarla via come qualcosa di anomalo. Mai come questa volta potrebbe essere il momento di riscatto per l’Italia. È dedicata al cibo; se sprechiamo quest’occasione, non solo affossiamo l’Italia ma perdiamo anche la nostra cultura.

E cosa ne pensa di F.I.CO., la grande struttura per la divulgazione dell’agroalimentare che verrà creata da Eataly al CAAB di Bologna?
F.I.CO. potrebbe essere una grandissima opportunità , se incentrato sul prodotto di nicchia – presentato in una certa maniera – e sulla formazione legata al cibo. L’importante è che non diventi un ipermercato, o una riunione di pochi eletti. Dovrebbe saper coinvolgere il bambino e l’anziano; dovrebbe veicolare un messaggio culturale perché è proprio lì che va a crearsi l’immagine del made in Italy. Ritengo che, anche in questo caso, se si guarda solo ai volumi e non a queste piccole cose – che a ben vedere piccole non sono, ma basilari – si perde il treno. Sarà molto bello e molto valido, se gestito nella maniera giusta.

Esiste un dolce che proprio non le riesce come vorrebbe; qual è la sua bestia nera?
Secondo me, è il dolce al caramello. È il più difficile in assoluto, cambia in base a chi lo fa; non esiste Il dolce al caramello. Col caramello è molto difficile portare la cottura alla giusta intensità; rimane sempre un dolce da concorso, difficilmente diventa un dolce da pasticceria. Tutti i dolci che ritenevo difficili da fare bene o male siamo riusciti a domarli, il caramello ancora no.